Con suo enorme sollievo, l’oggetto, dopo una sorta di spallucciata legnosa, prese a trottare via attraverso gli alberi.
Con uno sforzo sovrumano lo sciamano si ricordò della corretta sequenza dei movimenti per alzarsi in piedi e riuscì perfino a fare due passi prima di abbassare lo sguardo e rinunciarci, dato che era rimasto senza gambe.
Nel frattempo Scuotivento aveva trovato un sentiero. Era un sentiero assai tortuoso e lui avrebbe preferito che fosse selciato, ma seguirlo gli dava qualcosa da fare.
Diversi alberi cercarono di intavolare discorso con lui. Ma Scuotivento era quasi sicuro che quello non era un comportamento normale per degli alberi e li ignorò.
Il giorno si allungava. Non si udiva alcun suono eccetto il ronzio di piccoli insetti malignamente pungenti, di tanto in tanto lo scricchiolio di un ramo che si spezzava e il sussurro degli alberi che discutevano di religione e delle noie causate loro dagli scoiattoli. Scuotivento cominciò a sentirsi molto solo. S’immaginò di vivere per sempre nei boschi, dormendo sulle foglie e mangiando… e mangiando ciò che c’era da mangiare nei boschi. Alberi, pensò, noci, bacche. Avrebbe dovuto…
— Scuotivento!
Su per il sentiero ecco avanzare Duefiori, tutto gocciolante, ma radioso. Il Bagaglio gli trotterellava dietro (qualsiasi oggetto fatto di legno segue il suo proprietario ovunque ed è spesso usato per fabbricare bauli contenenti il corredo funebre dei ricchissimi re defunti i quali vogliono essere sicuri d’iniziare una nuova vita nell’altro mondo con biancheria intima pulita).
Scuotivento sospirò. Fino a quel momento aveva creduto impossibile che la giornata gli andasse peggio.
Aveva preso a venire giù una pioggia particolarmente bagnata e fredda. Seduti sotto un albero, Scuotivento e Duefiori la guardavano cadere.
— Scuotivento?
— Uhm?
— Perché siamo qui?
— Be’, certi sostengono che il Creatore dell’Universo ha fatto il Disco e tutto ciò che c’è su di esso. Secondo altri, è una storia assai complicata che ha a che fare con i testicoli del Dio Cielo e il latte della Vacca Celeste. Altri ancora ritengono perfino che siamo semplicemente il risultato dell’aggregarsi assolutamente casuale delle particelle di probabilità. Ma se intendi perché siamo qui contrariamente al fatto di essere precipitati fuori dal Disco, non ne ho la minima idea. Probabilmente si tratta di un incredibile errore.
— Oh! Pensi che ci sia qualcosa da mangiare in questa foresta?
— Sì — rispose amaramente il mago. — Noi.
— Se volete, ho delle ghiande — interloquì premuroso l’albero.
I due sedettero in silenzio per qualche momento.
— Scuotivento, l’albero ha detto…
— Gli alberi non sanno parlare — rispose sgarbato il mago. — È molto importante ricordarsene.
— Ma hai sentito giusto ora…
Scuotivento sospirò. — Ascolta. Si riduce tutto a un semplice fatto biologico, no? Per parlare uno ha bisogno dell’attrezzatura adatta, come polmoni, labbra e… e…
— Corde vocali — disse l’albero.
— Già, quelle — convenne Scuotivento. Tacque e guardò la pioggia con aria cupa.
— Io credevo che i maghi sapessero tutto a proposito di alberi e cibo selvatico e… cose — disse Duefiori in tono di rimprovero. Raramente accadeva di percepire nella sua voce una nota che lasciasse supporre che lui non considerasse Scuotivento uno straordinario incantatore. Punto sul vivo, il mago reagì.
— So tutto, so tutto — scattò.
— Bene, questo che genere di albero è? — chiese il turista.
Scuotivento alzò gli occhi. — Un faggio — affermò.
— In realtà… — cominciò l’albero e subito s’interruppe. Aveva captato l’occhiata del mago.
— Quei cosi lassù sembrano ghiande — obiettò Duefiori.
— Sì, be’, questo è il sessile della varietà eptocarpica — disse Scuotivento. — Le noci assomigliano molto alle ghiande, in effetti. Possono ingannare praticamente chiunque.
— Accipicchia — esclamò Duefiori. — Allora, che cos’è quel cespuglio laggiù?
— Vischio.
— Ma ha delle spine e bacche rosse!
— E allora? — osservò severamente Scuotivento, fissandolo. Duefiori fu il primo a cedere.
— Niente — rispose arrendevole. — Devono avermi informato male.
— Giusto.
— Ma sotto ci sono dei grossi funghi. Si possono mangiare?
Scuotivento li guardò, cauto. Erano davvero molto grossi, con le cappelle a macchie bianche e rosse. In effetti appartenevano alla varietà che lo sciamano locale (il quale a questo punto era a chilometri di distanza a fare amicizia con una roccia) avrebbe mangiato solo dopo essersi legato una gamba a una grossa pietra con una fune.
Al mago non restava che uscire nella pioggia e osservarli.
S’inginocchiò sul terriccio e sbirciò sotto la cappella. Dopo un po’, disse con voce debole: — No, non sono affatto buoni da mangiare.
— Perché? — gridò Duefiori. — Hanno le lamelle della sfumatura sbagliata di giallo?
— No, non proprio…
— Allora immagino che il gambo non ha la scanalatura giusta.
— Sembra a posto.
— La cappella, allora. Suppongo che la cappella sia del colore sbagliato.
— Non ne sono sicuro — disse Scuotivento.
— Be’, allora, perché non si possono mangiare?
Il mago tossì. — Si tratta delle porticine e delle finestrelle — rispose infelice. — È un segnale sicuro.
Il tuono rombava nell’Università Invisibile. La pioggia batteva sui tetti e gorgogliava fuori dai doccioni, anche se uno o due dei più astuti se l’erano svignata per andarsi a riparare tra le tegole. Molto più in basso, nella Grande Sala, gli otto maghi più potenti del mondo-Disco erano riuniti agli angoli dell’ottogramma cerimoniale. In realtà, se si fosse conosciuta la verità, probabilmente essi non erano i più potenti, ma possedevano di certo grandi poteri di sopravvivenza. Il che era più o meno lo stesso nel mondo altamente competitivo della magia. Alle spalle di ogni mago dell’ottavo grado si teneva una mezza dozzina di maghi del settimo che cercavano di farlo fuori. Così, i maghi più anziani si vedevano costretti a fare la massima attenzione a, diciamo, gli scorpioni nel loro letto. La situazione era sintetizzata dal seguente proverbio: quando un mago si stanca di cercare dei pezzi di vetro nella sua cena, vuol dire che è stanco della vita. Il mago più vecchio, Greyhald Spold degli Antichi Saggi Originali del Circolo Intatto, si appoggiò pesantemente sul suo bastone intagliato e parlò così:
— Va’ avanti, Weatherwax, i piedi non mi reggono.
Galder, che aveva fatto una pausa ad effetto, gli lanciò un’occhiataccia.
— Benissimo, allora. Sarò breve…
— Ottimo.
— Tutti noi abbiamo cercato un consiglio illuminante. Chi fra di noi può affermare di averlo ricevuto?
I maghi si guardarono di sottecchi. Non esiste un luogo, all’infuori di una conferenza sindacale di fraterna utilità, dove trovare tanta reciproca sfiducia e sospetto come in una riunione di maghi di alto livello. Il fatto è che la giornata era andata molto male. Demoni, di solito pronti a dare informazioni, bruscamente evocati dalle Dimensioni Sotterranee, avevano reagito alle domande con aria sbigottita e se l’erano squagliata. Gli specchi magici si erano rotti. Le sfere di cristallo si erano appannate. Perfino le foglie del tè, solitamente disprezzate dai maghi e indegne di essere da loro contemplate, si erano ammucchiate in fondo alle tazze e avevano rifiutato di muoversi.
In breve, i maghi lì radunati non sapevano che pesci prendere. Ci fu un mormorio generale di assenso.
— E perciò propongo di eseguire il Rito di AshkEnte — disse Galder in tono drammatico.
Doveva ammettere di avere sperato in una reazione migliore, qualcosa come, be’: "No, non il Rito di AshkEnte! L’uomo non è stato fatto per immischiarsi in cose del genere!".
Invece ci fu un mormorio generale di approvazione.