— Wheet?
— Niente, solo un’idea.
— Io so dove c’è del cibo per voi più grandi — disse lo gnomo — e anche un riparo. Non è lontano.
Scuotivento guardò il cielo. La luce del giorno stava scomparendo dal paesaggio e le nuvole davano l’impressione di aver sentito parlare della neve e di prendere l’idea in considerazione. Certo, non bisognava per forza fidarsi di persone che vivono nei funghi, ma in quel momento una trappola munita dell’esca di un pasto caldo e di lenzuola pulite avrebbe indotto il mago a batterci su con i pugni per entrarvi.
I tre s’incamminarono. Qualche secondo dopo il Bagaglio si mise cautamente in piedi e prese a seguirli.
— Psst!
Il Bagaglio si girò con precauzione, muovendo le gambette in una manovra complicata, e parve guardare in su.
— È bello essere l’opera di un falegname? — chiese ansioso l’albero. — Fa male?
Sembrò che il Bagaglio ci pensasse su. Ogni sua maniglia di ottone, ogni suo foro irradiavano una concentrazione estrema. Poi scrollò il coperchio e si allontanò dondolando. Con un sospiro, l’albero si scosse dai rami qualche foglia morta.
Il cottage era piccolo, in cattivo stato, eccessivamente decorato. Doveva essere l’opera di un intagliatore pazzo, decise Scuotivento, uno che aveva fatto un orribile pasticcio prima di essere trascinato via. Ogni porta, ogni imposta esibiva una quantità di grappoli di legno e di fessure a mezzaluna e sopra i muri c’era un trionfo di fregi formati da pigne. Il mago quasi si aspettava che un cuculo gigantesco sbucasse fuori d’improvviso da una finestra del piano superiore.
Notò pure nell’aria il tipico sentore oleoso. Minuscole scintille verdi e purpuree gli sprizzarono dalle unghie.
— Un forte campo magico — borbottò il mago. — Almeno un centinaio di millithaum. [Un Thaum è l’unità base della forza magica, universalmente fissata come la quantità di magia necessaria per creare un piccolo piccione bianco o tre palle da biliardo di dimensioni normali.]
— C’è magia dappertutto in questo posto — osservò Swires. — Da queste parti viveva una vecchia strega. Se ne è andata molto tempo fa ma la magia tiene in piedi la casa.
— Ehi, quella porta ha qualcosa di strano — dichiarò Duefiori.
— Perché una casa dovrebbe avere bisogno della magia per stare in piedi? — chiese Scuotivento.
Duefiori toccò una parete. — È tutta appiccicosa!
— Torrone — disse Swires.
— Accipicchia! Un vero cottage di marzapane! Scuotivento, un vero…
Il mago annuì con aria cupa. — Già, la Scuola di Architettura Pasticcera. Non si è mai affermata. — Guardò sospettoso il batacchio di liquerizia.
— Si potrebbe dire che il cottage si rigenera — spiegò Swires. — Davvero straordinario. Oggigiorno è impossibile avere un posto del genere, non si trova il marzapane.
— Davvero? — fu il lugubre commento di Scuotivento.
— Entrate, ma attenzione allo zerbino — li ammonì lo gnomo.
— Perché?
— Zucchero filato.
Il grande Disco rotava lento sotto il sole che percorreva faticosamente il suo cammino e la luce del giorno indugiava nelle vallate per poi finalmente ritirarsi con il calar della notte.
Nella sua fredda stanza all’Università Invisibile, Trymon era chino sul libro e muoveva le labbra mentre col dito seguiva l’antica scrittura, a lui poco familiare. Lesse che la Grande Piramide di Tsort, da lungo tempo scomparsa, era formata da un milione e tremiladieci blocchi calcarei. Lesse che per erigerla diecimila schiavi erano morti sul lavoro. Apprese che era formata da un labirinto di passaggi segreti, con le pareti decorate con la saggezza distillata dell’antico Tsort. Lesse che la sua altezza più la lunghezza divisa per metà della larghezza era esattamente pari a 1,67563, o precisamente 1.237,98712567 volte la differenza tra la distanza dal sole e il peso di una piccola arancia. Apprese che erano stati dedicati alla sua costruzione ben sessanta anni.
Secondo lui, una gran fatica soltanto per affilare una lama di rasoio.
E nella Foresta di Skund, Duefiori e Scuotivento consumavano un pasto consistente in mensola di marzapane. E pensavano con nostalgia alle cipolle in agrodolce.
E molto lontano, sebbene fisso su una rotta di collisione, il massimo eroe mai prodotto dal Disco si arrotolava una sigaretta, inconsapevole del ruolo che lo attendeva.
Era una vera opera d’arte quella che rigirava con dita esperte perché, al pari di molti maghi girovaghi dai quali aveva appreso l’arte, lui aveva l’abitudine di mettere da parte i mozziconi in un sacchetto di pelle e di arrotolarli per farne nuove sigarette. Secondo l’implacabile legge del calcolo delle probabilità, parte di quel tabacco ormai era stata fumata ripetutamente da molti anni. La cosa che il nostro eroe stava cercando invano di accendere era… be’, ci si sarebbe potuto asfaltare una strada.
Tanto grande era la reputazione di questa persona che un gruppo di cavalieri nomadi l’avevano rispettosamente invitata a unirsi a loro intorno a un fuoco di sterco di cavallo. I nomadi delle regioni centrali di solito migravano per l’inverno verso l’orlo de! Disco. Quelli appartenevano a una tribù che aveva piantato ie tende di feltro durante una tremenda ondata di caldo di -3 gradi. E se ne andavano in giro con il naso spellato a lamentarsi di un colpo di calore.
Il capo dei barbari domandò: — Quali sono dunque le cose più grandi che un uomo può trovare nella vita? — È questo, negli ambienti barbari, il genere di domanda che si deve fare per mantenere vivo lo spirito della steppa.
L’uomo alla sua destra ingollò pensieroso il suo cocktail di latte di giumenta e sangue di gatto delle nevi, e parlò così: — L’orizzonte tonificante della steppa, il vento nei capelli, montare un cavallo fresco.
L’uomo alla sua sinistra dichiarò: — Il grido dell’aquila bianca alta nel cielo, la neve che cade sulla foresta, una buona freccia al proprio arco.
Il capo annuì e disse: — Di sicuro è la vista del tuo nemico trucidato, l’umiliazione della sua tribù e il lamento delle sue donne.
Un tale sfoggio di truculenza fu accolto dai suoi baffuti compagni con un mormorio generale di approvazione.
Poi il capotribù si volse rispettosamente al suo ospite, un ometto occupato a riscaldarsi i geloni al fuoco e gli chiese: — Ma il nostro ospite, il cui nome è leggendario, deve dirci sinceramente: quali sono per un uomo le cose più grandi della vita?
L’ospite s’interruppe mentre tentava ancora una volta di accendersi la sigaretta.
— Che disci? — biascicò con la bocca sdentata.
— Ho detto: quali sono per un uomo le cose più grandi della vita?
I guerrieri si chinarono attenti, ansiosi di udire la risposta.
L’ospite rifletté a lungo e poi dichiarò: — Acqua calda, un buon dentista e carta igienica morbida.
Nella fucina fiammeggiava la luce dell’ottarino. Nudo fino alla cintola, Galder Weatherwax, il viso riparato da una maschera di vetro fumé, socchiuse gli occhi contro il vivo chiarore, e diede un colpo di martello con precisione chirurgica. La magia sibilò e si contorse nelle tenaglie, ma lui non smise di lavorarla fino a forgiarla in una linea di fuoco.
Un’asse del pavimento scricchiolò. Galder aveva impiegato parecchie ore ad accordare quelle assi, precauzione sempre saggia con un assistente ambizioso che camminava come un gatto.
Re bemolle. Voleva dire che quello si trovava a destra della porta.
— Ah, Trymon — disse senza voltarsi e notò con una certa soddisfazione che il giovane mago alle sue spalle tratteneva appena il fiato. — Hai fatto bene a venire. Chiudi la porta, vuoi?
Trymon, con il viso impassibile, richiuse il pesante battente. Sullo scaffale in alto sopra la sua testa, varie impossibilità imbottigliate guazzavano nella salamoia e lo osservavano con interesse.