"Hai sbagliato" si disse Falk amaramente, e nella sua mente iniziò un dialogo;

"Che ho fatto di male? Perché mi hanno attaccato?"

"Zove ti aveva avvertito: non fidarsi di nessuno. Loro non si fidano di nessuno e fanno bene."

"Anche se qualcuno viene a chiedere aiuto?"

"Qualcuno con la tua faccia… i tuoi occhi? È ovvio anche al primo sguardo che non sei un uomo come gli altri."

"Nonostante tutto, un sorso d'acqua me l'avrebbero potuto dare" — disse la parte più infantile e intrepida della sua mente.

"Sei dannatamente fortunato che non ti abbiano ucciso subito" replicò duro il suo intelletto, e non ottenne risposta.

Era chiaro: tutti quelli che vivevano nella Casa di Zove si erano abituati agli occhi di Falk, gli ospiti erano rari e cauti, sicché egli non era mai stato costretto a tener conto della differenza fisica che lo distingueva dagli altri uomini. Sembrava una differenza e una barriera molto meno importante dell'amnesia e dell'ignoranza che per tanto tempo lo avevano isolato dagli altri. Ora, per la prima volta, egli si rese conto che un estraneo guardandolo in faccia non vedeva la faccia di un uomo.

Quello che si chiamava Drehnem aveva paura di lui, e lo aveva colpito perché aveva paura, repulsione per l'alieno, il mostruoso, l'incomprensibile.

Era proprio questo che Zove aveva tentato di dirgli con quell'ammonimento severo e affettuoso: — Devi andare da solo, non puoi che essere solo.

Non c'era rimedio, per ora, se non dormire. Si distese sull'ultimo gradino, piegato su se stesso quanto poteva, perché il pavimento oltre che sporco era bagnato, e chiuse gli occhi nel buio.

A un certo momento di quella situazione senza tempo fu svegliato dai topi. Correvano lì attorno, facendo un esile rumore graffiante, zigzag acuto di suoni che si incrociavano nel buio, sussurrando con voci piccolissime: — È male togliere la vita, è male togliere la vita, hello heellllooo non ucciderci non uccidere.

— Io lo farò — tuonò Falk, e tutti i topi rimasero zitti.

Adesso era difficile tornare a dormire; o forse non gli era più possibile sapere se dormiva o se era sveglio. Restò disteso a domandarsi se era giorno o notte; e quanto tempo lo avrebbero tenuto rinchiuso; o se volevano ucciderlo o usar di nuovo la droga finché la sua mente fosse distrutta completamente; e dopo quanto tempo la sua sete sarebbe passata dalla sofferenza alla tortura; e se era possibile prendere topi al buio senza trappole né esche; e quanto tempo si poteva sopravvivere con una dieta di topi crudi.

Diverse volte, per distrarsi dai pensieri, tornò a compiere esplorazioni. Una volta trovò una grande tinozza o botte aperta in alto, e il suo cuore fece un balzo di speranza, ma picchiandola diede un suono vuoto, i bordi scheggiati gli graffiarono le mani, ed egli se ne andò a tastoni. Non riuscì a trovare altre scalinate o altre porte nelle sue esplorazioni tra muri senza fine e mai visibili.

Perse l'orientamento alla fine, e non riuscì più a ritrovare le scale. Sedette sul pavimento, nell'oscurità, ed immaginò la pioggia, fuori nella foresta in cui aveva viaggiato sempre solo, e la luce grigia, col suono della pioggia. Declamò nella sua mente tutto ciò che riuscì a ricordare del Vecchio Canone, cominciando dall'inizio:

La via che può essere percorsa
non è l'eterna Via…

Dopo pochi minuti la sua bocca si fece talmente secca che egli tentò di leccare il pavimento, umido, sporco, ma anche fresco; la sua lingua però ebbe l'impressione di incontrare soltanto polvere secca. I topi correvano molto vicini a lui a volte, bisbigliando.

Molto lontano, in fondo ai corridoi bui, scattarono dei catenacci, ci fu rumore di metalli urtati e un netto scoppio di luce. Luce…

Forme e ombre, volte, archi, tini, botti, aperture, apparvero in massa, confusamente, nella realtà che lo circondava. Si alzò e cominciò a muoversi, con passo malcerto però di corsa, verso la luce.

Veniva da una porta bassa, attraverso la quale, quando fu vicino riuscì a scorgere un rialzo di terreno, cime di alberi, e il cielo rosato di una sera o di un mattino, che lo abbacinava come il sole di un mezzogiorno d'estate. Si fermò prima della porta, perché era abbagliato e perché subito oltre c'era una figura immobile.

— Vieni fuori — disse la voce sottile e roca del grosso uomo, Argerd.

— Aspetta. Non riesco ancora a vederci.

— Fuori. E in marcia. Non voltare nemmeno la testa, o te la faccio saltare dal collo.

Falk raggiunse la porta, poi esitò ancora. I pensieri che aveva avuto al buio servivano a qualcosa, ora. Se lo lasciavano andare, aveva pensato, voleva dire che avevano paura ad ucciderlo.

— Muoviti!

Decise di correre il rischio. — Non senza il mio zaino — disse con la voce indebolita dalla gola secca. — Questo è un laser.

— Puoi anche usarlo. Non posso attraversare il continente senza una pistola.

Questa volta fu Argerd a esitare. Infine, alzando la voce quasi in uno strillo, gridò a qualcuno: — Gretten! Gretten! Porta qui la roba dello straniero!

Una lunga pausa. Falk restò nell'oscurità, appena dentro alla porta. Argerd, immobile, fuori. Una ragazza arrivò di corsa giù per il pendio erboso visibile dalla porta, depose lo zaino di Falk e sparì.

— Raccoglilo — ordinò Argerd. Falk uscì alla luce e obbedì. — Adesso in marcia.

— Aspetta — disse Falk, inginocchiato a guardare nello zaino tutto in disordine. — Dov'è il mio libro?

— Quale libro?

— Il Vecchio Canone. Un libro stampato, non elettronico.

— Pensavi che ti lasciassimo andar via con quello?

Falk lo fissò stupito. — Non riconoscete i Canoni dell'Uomo quando li vedete? Perché l'avete preso?

— Tu non sai e non scoprirai ciò che sappiamo, e se non ti metti in marcia subito ti faccio saltar via la testa. Alzati e cammina, cammina diritto, avanti. — La nota strillante era tornata nella voce di Argerd, e Falk comprese di essersi spinto già troppo in là. Quando vide lo sguardo di odio e di paura che c'era sul viso forte e intelligente di Argerd, ne rimase contagiato e in fretta chiuse lo zaino e se lo mise in spalla, passò accanto al grosso uomo e si incamminò per la salita erbosa che incominciava dalla porta della cantina. Era certamente sera, un po' dopo il tramonto. Falk camminò diritto verso il sole calante. Pareva che ci fosse un sottile cavo elastico di paura allo stato puro che congiungeva la sua nuca al mirino della pistola-laser che Argerd impugnava, e il cavo si tendeva, si tendeva sempre più man mano che egli avanzava. Oltre un prato di erbacce, oltre un ponte di tavole grezze che superava il fiume, su per un sentiero tra i pascoli, e poi tra i frutteti. Raggiunse la cima delle colline. Qui si volse un attimo e vide la valle nascosta proprio come l'aveva vista la prima volta, piena della luce dorata del tramonto, dolce e colma di pace, con i camini che si innalzavano accanto al fiume che rispecchiava il cielo. Si affrettò verso il folto della foresta, dove era già notte.

Assetato e affamato, dolorante e avvilito, Falk vide il suo viaggio senza meta nella Foresta Orientale, senza più speranze di incontri amichevoli lungo la via che spezzassero la dura monotonia della vita selvaggia. Non doveva più cercare strade ma evitare tutte le strade, tenersi nascosto agli uomini e lontano dai luoghi in cui essi vivevano, come faceva qualunque bestia selvatica. A parte un ruscello presso cui si fermò a bere e la razione d'emergenza che estrasse dal sacco, una sola cosa lo rallegrò un poco, e fu il pensiero che, dopo tutto, aveva sopportato le avversità tutto da solo, non aveva ceduto. Era riuscito a tener testa al cinghiale moralista e agli uomini brutali, e se l'era cavata. Questo lo rincuorò, perché si conosceva ancora tanto poco che ogni sua azione era anche una scoperta di se stesso, come le azioni di un bambino, e sapendo che tante cose gli mancavano, fu lieto di constatare che, almeno, non era senza coraggio.


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