Il quarto giorno si svegliò.
Avvertì una sensazione di prurito al braccio, all’inizio, e malgrado si trattasse di una sensazione che aveva già provato in quei giorni di sofferenza, stavolta non le procurava disagio ma piacere. Glair aprì gli occhi per vedere che cosa stava succedendo. Un terrestre muscoloso era in piedi sopra di lei, e le premeva un tubetto di porcellana marrone e rilucente contro la parte carnosa del braccio. Quando incontrò i suoi occhi, l’uomo si irrigidì all’istante.
— Finalmente ti sei svegliata — le disse. — Come ti senti?
— Malissimo. Che cosa sta facendo al mio braccio?
— Un’iniezione intravenosa. Sto cercando di nutrirti. Ma ho avuto qualche problema a trovare le tue vene.
Glair si concesse una risata. Ridere, lo sapeva, era il modo in cui i terrestri mitigavano le tensioni sociali. Ma era molto tempo che non si esercitava più nell’apprendimento delle abitudini terrestri, ed i suoi muscoli facciali trovarono qualche difficoltà ad atteggiarsi nella risata. Dovette sforzarsi, ed il risultato dovette assomigliare più ad una smorfia di dolore che ad una risata, poiché l’uomo reagì con un sospiro di affettuosa comprensione.
— Tu soffri — le disse. — Ho qui dell’anestetico…
Glair scosse la testa. — No. No, andrà tutto bene. Questo è un ospedale? Lei è un dottore?
— No. E no.
Ne fu sollevata e stupita. — Dove mi trovo, allora?
— A casa mia. Ad Albuquerque. Mi sono preso cura di te da quando ti ho trovata, quella notte.
Glair lo studiò. Era il primo terrestre che vedeva in carne ed ossa — e non sulle registrazioni solidografiche con cui aveva a che fare ogni osservatore Dirnano durante il periodo di addestramento — e quella vista la affascinò. Com’era compatto il suo corpo! E com’erano ampie le sue spalle. Colse con le narici sensibilissime il profumo del suo corpo, fragrante ed eccitante, che contrastava con quello più acre dell’aria terrestre. Assomigliava quasi più ad una bestia che ad una creatura intelligente, tanto possente e primordiale era la sua struttura.
E a Glair sembrò che quell’uomo, il suo salvatore, fosse in preda ad un’angoscia mortale. Sprovveduta com’era in fatto di psicologia terrestre, poteva tuttavia leggere sul suo volto i segni della tensione. L’uomo serrava così strette le mascelle che i muscoli guizzavano e si increspavano sulle sue guance. La lingua continuava a muoversi incessantemente sulle labbra; le narici erano contratte. Gli occhi, rossi e cerchiati da linee scure, tradivano una lunga mancanza di sonno. C’era qualcosa di terrificante nella vista di un essere intelligente sottoposto a una tale tensione. Dimenticando per il momento le sue difficoltà, le sue ferite, il suo isolamento dai propri simili, la sua paura per essere stata scoperta, Glair cercò di irradiare un senso di calda partecipazione per i problemi di quell’uomo, qualsiasi essi fossero.
Diede un’occhiata alla stanza. Era piccola, austera, con il soffitto basso e mobilia modesta. Attraverso la sezione trasparente di una delle pareti penetrava la luce del sole. Lei si trovava sopra un letto stretto, nuda, con una coperta leggera che le arrivava fino alla vita e lasciava in mostra i globi sodi che erano i suoi seni. Ciò non le creava nessun problema, ma sembrava invece provocare qualche disturbo di tipo sessuale nel suo ospite, almeno a giudicare dal modo in cui continuava a posare ed a distogliere in continuazione lo sguardo dal suo petto. Il terrestre sembrava soffrire contemporaneamente di almeno una mezza dozzina di differenti tipi di tensione.
Glair si rilassò, esausta per lo sforzo di dover tradurre fatti teorici appresi tanto tempo prima in cose concrete. Era stata ben preparata, come tutti gli osservatori, all’eventualità di essere costretta ad un atterraggio forzato sulla Terra. Ma ci voleva ugualmente un grosso sforzo per adattarsi a quella nuova situazione, per pensare: questo è un letto, queste sono delle coperte, quella è una parete, il terrestre indossa una. camicia grigia e dei pantaloni marroni. Non si trattava solo di trovare degli equivalenti terrestri per i termini Dirnani, ma di identificare degli interi concetti. I Dirnani non usavano letti, coperte, camicie o pantaloni. Né molte altre cose che all’improvviso erano divenute enormemente importanti per lei.
L’uomo disse: — Avevi tutte e due le gambe rotte. Te le ho sistemate. Sono riuscito a farti scivolare un po’ di cibo nella gola. Ti ho vegliato per tre giorni e tre notti. Ho pensato che stessi per morire, per il primo giorno e metà di quello successivo. Ma tu mi hai detto «Aiutami», te lo ricordi? Eri in te quando ti ho trovato, e questo è ciò che mi hai detto. Sono le ultime parole che ho udito da te, fino a poco fa’. Ti ho aiutato, spero.
— Lei è stato molto gentile. Probabilmente sarei morta senza il suo aiuto.
— Ma io sono un tipo strano. Non avrei dovuto mai portarti qui. Avrei dovuto portarti diritta in città, all’ospedale militare. Sotto stretta sorveglianza. — Tremava, come se ogni muscolo del suo grosso corpo fosse in guerra con gli altri. — Comportandomi così, rischio la corte marziale. È pura follia.
Glair non sapeva che cosa fosse una corte marziale, ma il terrestre sembrava chiaramente prossimo ad un collasso. Con voce dolce gli disse: — Ha bisogno di riposo. Non deve aver dormito per niente, mentre si prendeva cura di me. Ha l’aria afflitta.
Lui si inginocchiò accanto al letto, e le sollevò la coperta fino al mento, come se la vista dei suoi seni lo disturbasse o addirittura lo disgustasse. Il suo volto era vicinissimo a quello di Glair, e quest’ultima scorse il tormento negli occhi dell’uomo.
Con voce bassa e tagliente, lui bisbigliò: — Che cosa sei?
La storiella che si era improvvisata le salì spontaneamente alle labbra. — Sono iscritta ad un corso di pilotaggio. Sono decollata subito dopo cena dall’aeroporto di Taos insieme al mio istruttore, e sopra Santa Fe abbiamo cominciato ad avere noie al motore…
Le mani dell’uomo si chiusero in pugni massicci. — Stammi a sentire; la tua storiella è ben congegnata, ma io non la bevo. Sei stata qui in casa mia per tre giorni, nuda. Ti ho fatto da infermiere. Ho avuto tutta l’opportunità di esaminarti. Io non so che cosa tu sia, ma so quello che non sei. Non sei una bella ragazza di Taos che ha dovuto gettarsi col paracadute quando il suo jet è rimasto in panne. Non sei affatto umana. Non fingere. Per l’amor di Dio, dimmi che cosa sei, da dove vieni! Ho vissuto le pene dell’inferno, da quando sei qui dentro!
Glair esitò. Conosceva le regole che si dovevano osservare in caso di contatto accidentale con un terrestre. Bisognava evitare a tutti i costi di farsi scoprire per ciò che si era, soprattutto da parte di qualsiasi autorità governativa. Ma le regole non erano inflessibili. Si potevano intraprendere i passi che si ritenevano necessari per salvare la propria vita, e in certi casi si poteva addirittura ritenere ammissibile una giudiziosa rivelazione della propria vera identità. Lo scopo era quello di sopravvivere, e di abbandonare la Terra il più presto possibile. Ma, nelle sue condizioni fisiche, non poteva andare da nessuna parte, e quell’uomo costituiva la sua unica possibilità di sopravvivenza. Glair interpretò le regole nel senso che poteva confidarsi con lui in nome della sua salvezza, presumendo che una volta riuscita a sfuggire nessuno avrebbe prestato comunque fede alla storia dell’uomo.
— Che cosa pensi che io sia? — gli domandò.
— Sei atterrata nel deserto dopo il più clamoroso avvistamento di un globo di fuoco che si sia mai verificato. Non avevi un paracadute, ma solo una specie di tuta elastica piena di strani congegni. Farfugliavi qualcosa in una lingua che non avevo mai udito prima. D’accordo, potevo ancora pensare che tu fossi una spia di qualche paese straniero. Ma ti ho portato a casa. Non avrei dovuto farlo, e non so perché l’ho fatto, ma l’ho fatto lo stesso, ed ho fatto anche trasferire il guidatore del mio cingolato nel Wyoming perché non dicesse nulla, ti ho messo nel mio letto, ti ho sfilato la tuta, ed anche quella fascia che portavi sotto. Mentre facevo tutto ciò, continuavo a cercare di convincermi che tu fossi un essere umano.