— Devo condurre io una spedizione — disse Douglas a sua moglie.

Aveva qualche ciocca grigia alle tempie, ormai, mentre i capelli di Lisa si mantenevano neri e lucidi come sempre. Lei s'irrigidì: alla fine era arrivato il momento del confronto, quel momento che lei aspettava da tempo.

— No, Doug — disse con dolcezza. — Non ti lascerò andare. Sei troppo importante qui.

Stavano seduti uno di fronte all'altra al tavolo da pranzo nel loro nuovo alloggio, composto di tre locali. In qualità di presidente del consiglio, Douglas era stato costretto ad accettare il primo degli alloggi più ampi, che comprendeva un soggiorno dove potevano prendere posto cinque o sei persone, una zona pranzo con annesso cucinotto e una camera da letto di grandezza spropositata.

Douglas allungò la mano sul tavolo di pietra e strinse quella sottile di lei. — Lisa, è inutile discutere. Devo andare. Nessun altro può farlo. Devo assumermi io la responsabilità.

— Hai molte responsabilità qui.

— Se i generatori nucleari non avranno più combustibile, andremo a catafascio.

— Ci sono altri in grado di guidare la spedizione.

— Io sono il responsabile, quindi tocca a me — insisté lui.

Lisa lo fissò a lungo nei gelidi occhi azzurri e capì che non c'era modo di smuoverlo. Salvo uno. Lisa sapeva di avere un asso nella manica, una carta vincente che l'avrebbe costretto a cedere.

— Doug… non parlo per me — disse con un sussurro quasi infantile. — Io… be', aspetto un figlio.

— Sei incinta? — disse lui stupidamente.

Lisa annuì e si concesse un largo sorriso.

— Davvero? — disse lui sorridendo a sua volta.

— L'hanno confermato stamattina le analisi di Catherine.

— Un figlio — disse lui, stringendole forte la mano. — Credi che sarà un maschio?

Lei rise. — Lo spero.

— Un figlio. — Era raggiante. — Andrà bene anche se sarà una femmina. Per me non fa differenza.

Non è vero, pensò Lisa. Come sei trasparente, Douglas… e malleabile.

Lisa aveva temuto che l'allusione alla gravidanza risvegliasse in lui i ricordi di sei anni prima, quando il loro matrimonio era entrato in crisi. Le bruciava ancora la guancia, quando ripensava allo schiaffo che lui le aveva dato. Ma in tutti quegli anni gli era stata fedele, dimostrandosi una moglie modello come si addiceva al capo della comunità, in modo da non destare il minimo sospetto né dare adito ai pettegolezzi che si propagavano con la velocità di un fulmine in quel piccolo mondo. Per quasi sei anni aveva fatto di tutto per renderlo felice. E per quasi sei anni lui le era stato devoto e grato, e senza avvedersene si era lasciato guidare da lei. Douglas Morgan era il presidente del Consiglio, ma chi comandava era Lisa.

— Io, Doug… — balbettò. — Credi che non potresti rinviare la spedizione finché non sarà nato il bambino?

— Nove mesi? — Il sorriso si spense per lasciare il posto a un'espressione perplessa e pensosa. — Nove mesi — ripete. — Dovrò controllare. Ma il margine sarà molto ristretto.

Ma lei sapeva che avrebbe aspettato. E dopo la nascita del bambino avrebbe trovato un altro sistema per dominarlo. Specialmente se fosse nato un maschio.

Ma aveva fatto i conti senza Martin Kobol.

Cinque mesi trascorsero senza incidenti. Pur brontolando, Douglas rinviò la spedizione sulla Terra. Kobol osservava e aspettava mentre le riserve di carburante andavano lentamente assottigliandosi.

— Di questo passo — disse a Douglas — dovremo ricorrere alle riserve di emergenza fra meno di un anno.

Si trovavano nel piccolo vano che fungeva da ufficio, attiguo alla sala di controllo della centrale nucleare. Attraverso la finestra a vetri piombati, Douglas poteva vedere l'ampio banco di controllo, con le sue file di quadranti e interruttori, a cui sedevano due tecnici stanchi e assonnati. Al di là delle porte di piombo che dividevano il locale si trovava il generatore nucleare che silenziosamente convertiva l'energia degli atomi scissi di uranio in elettricità.

Douglas annuì preoccupato. — Lo so. Dobbiamo andare sulla Terra per procurarci altro materiale fissile.

— E non possiamo aspettare ancora molto — disse Kobol indicando lo schermo del computer che riportava i dati relativi alla quantità del carburante.

— Pochi mesi ancora… — mormorò Douglas.

Kobol si mise a sedere sul bordo della scrivania per riposare la gamba che gli faceva male. — Avremmo dovuto andare tre mesi fa, in primavera. Adesso siamo in piena estate. Fra pochi mesi sarà inverno.

— Conosco le stagioni! — esclamò irritato Douglas.

Kobol chiuse gli occhi per un attimo. Pareva che stesse pregando. — Si tratta di Lisa, non è vero? Vuole che tu aspetti finché non sarà nato il bambino.

— Sono io che voglio aspettare finché non sarà nato — precisò Douglas.

— E intanto finirà il combustibile.

— Non finirà, Martin. Non farmi fretta.

— Doug, si tratta di una cosa molto seria. Se non ti muovi porterò la questione davanti al Consiglio.

— Fallo! — sbottò Douglas.

— Fa' pure tutto quello che credi. Guida tu la spedizione sulla Terra. Ci hai già provato una volta e non ti è andata bene. Vero o no?

Si accorse di avere alzato troppo la voce. I due tecnici avevano alzato la testa e si erano voltati a guardarlo.

Kobol non aprì bocca.

Con un sospiro di esasperazione Douglas lo afferrò per le spalle ossute. — Mi dispiace, Marty. Hai ragione tu. Avremmo dovuto partire tre mesi fa. È che… che Lisa ha perso il suo primo bambino, e le radiazioni che l'hanno colpita… be', voglio restare qui per essere sicuro che tutto vada bene.

Kobol si liberò dalla stretta e si avviò zoppicando alla porta. Senza voltarsi, disse: — Perché questo dovrebbe essere tanto speciale? Lisa ha già abortito tre o quattro volte.

Era una cosa così strana, talmente incredibile, che Douglas credette di avere frainteso.

— Cos'hai detto? — chiese con voce soffocata.

Kobol posò una mano sulla maniglia e si voltò di sbieco per guardarlo. — Questa volta non ha abortito per poterti dominare. Tu sei la marionetta e il bambino il filo.

Douglas si sentì raggelare il sangue. — Cosa hai da dire a proposito di quei tre o quattro aborti? — chiese con voce mortalmente calma.

— Niente — rispose Kobol alzando le spalle. — Non avrei dovuto parlarne. Non sono affari miei.

— Ma sono affari miei, Marty. — Senza avvedersene Douglas gli si avvicinò stringendo i pugni.

— Si tratta… voci che ho sentito — rispose l'altro. — Chiedi a Catherine Demain. Lei sa.

Spalancò la porta, e si avviò di buon passo, lasciando solo Douglas.

— È vero dunque? — disse Douglas a sua moglie.

Lisa era sdraiata sul letto, avvolta in una vestaglia nera. A Douglas pareva più bella che mai, come illuminata da una luce interiore. Si cominciava appena a notare che aspettava un bambino.

Lei si limitò a fissarlo coi suoi occhi da incantatrice, senza rispondere.

— Ho chiesto a Catherine. Lei non voleva ammetterlo, ma finalmente ha ceduto. Quattro aborti nel corso degli ultimi cinque anni. Quattro figli o figlie che avremmo potuto avere. Perché? Perché li hai uccisi?

— Non li volevo — rispose lei con lo stesso tono con cui avrebbe potuto leggere un elenco di numeri. — C erano altre cose più importanti.

— E io ho continuato a preoccuparmi per cinque anni pensando alle radiazioni a cui sei rimasta esposta durante l'esplosione solare… Gesù, Lisa, perché non hai almeno chiesto il mio parere?

— Non era affare tuo. La decisione spettava a me.

Lui si lasciò cadere in fondo al letto, chinando la testa, con gli occhi pieni di lacrime per la delusione. — Quattro bambini — mormorò. — Quattro bambini miei… e non me ne hai mai parlato.

— Avevi cose più importanti da fare che non parlare di bambini — disse Lisa.


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