Alec sentiva il battito del proprio cuore mentre salivano i gradini che portavano all'ingresso. La mano sudata scivolava sull'impugnatura dell'arma, ma nell'intimo era freddo e calmo.

L'interno dell'edificio era cosparso di frammenti di cemento e di intonaco, di foglie morte e macerie. Il locale era ampio e spoglio.

— Era l'atrio — spiegò Kobol. — Tutto quello che conteneva è stato distrutto o rubato da tempo.

— E i materiali fissili? — chiese Alec allarmato.

— Non preoccuparti — rispose Kobol ridendo. — Non è facile arrivarci… anche se i barbari sapevano della loro esistenza, e posto che li volessero. Il che è sommamente improbabile perché il materiale radioattivo è circondato da leggende e tabù. I barbari hanno una tremenda paura di quella roba.

Ispezionarono tutto l'edificio abbandonato. I locali erano ampi, ma recavano i segni del fuoco e delle distruzioni. Quasi tutti i tetti erano spariti e il sole nascente filtrava fra le travi smozzicate. Solo qualche muro divisorio era ancora intatto. Non c'erano indizi che lì dentro fossero entrati degli esseri umani.

C'era ovunque una grande sporcizia ed escrementi di animali. Kobol indicò un ciuffo d'erba secca incuneato in una crepa. — È il nido di un uccello — spiegò.

— Io ho la pelle d'oca — mormorò Gianelh.

— I barbari hanno portato via tutto quello che si poteva asportare e hanno bruciato il resto.

Raggiunsero una porta di metallo che si apriva su un lungo tunnel puntellato da travi pure di metallo.

— Questo è il corridoio che collegava la sede dell'amministrazione, dove siamo entrati, con uno degli impianti di lavorazione dove si ricavavano i materiali fissili dai minerali grezzi a bassa gradazione. — La voce di Kobol, che parlava come un professore in aula, risuonava nell'andito angusto. — Nell'edificio attiguo vedrete i macchinari, e più avanti ci sono le camere blindate dove sono immagazzinati i materiali che cerchiamo.

Aprirono la porta in fondo al corridoio, e si trovarono nella stanza più grande che Alec avesse mai visto. Il sole filtrava attraverso il tetto sconnesso. La stanza era vuota.

I giganteschi macchinari erano stati asportati, e non erano rimaste che le nude pareti. Kobol rimase esterrefatto.

— Ma qui non c'è niente! — esclamò Alec.

— Hanno portato via tutto — mormorò con voce rotta Kobol.

— I materiali fissili!

Corsero verso la pesante porta metallica al capo opposto dello stanzone. Alec aveva l'impressione di vivere un incubo. Continuava a correre, ma gli pareva di non progredire di un passo, in quell'enorme scatolone di cemento. Quasi inconsciamente si accorse che il pavimento era segnato da infissi metallici, nei punti dove prima i macchinari erano stati inchiavardati al cemento. Gli infissi erano lucidi e puliti, segno che i macchinari erano stati asportati di recente.

Raggiunsero ansimando la porta. Era socchiusa.

— Le stanze blindate… — ansò Kobol cercando di spalancare il pesante battente. Alec e Gianelli si fecero avanti per aiutarlo.

Dall'altra parte c'era un piccolo locale, in cui riuscirono a entrare a malapena tutti e cinque. Tre pareti erano coperte da compartimenti di metallo della grandezza di una grossa scatola, disposti uno sull'altro come scaffali, ma con spesse suddivisioni fra uno scaffale e l'altro.

— Vuoto!

Kobol continuava ad ansimare ed era pallidissimo. — Non… sono… stati i barbari.

Alec si voltò verso di lui.

— Solo un uomo… sapeva… Solo un uomo conosceva il valore… dei materiali fissili… Tuo padre — disse Kobol.

10

Prima di rispondere Alec si costrinse ad aspirare a fondo qualche boccata d'aria.

— Credi che abbia deliberatamente saccheggiato l'impianto?

— E chi altri avrebbe potuto farlo? — ribatté Kobol con gli occhi che mandavano lampi. — I barbari non sarebbero in grado di organizzare uomini e attrezzi necessari. Inoltre non sapevano certo cosa fossero tutte queste macchine. Fuggono questo impianto come l'inferno.

Gianelli tirò un calcio al muro. — Maledizione, siamo venuti qui per niente!

— Tuo padre — riprese Kobol, e lo disse come se volesse accusare Alec — sapeva che a noi occorrono quei materiali. Per questo li ha portati via. Vuole farci morire tutti.

— Quanto credi che potranno durare ancora le nostre scorte? — chiese Alec senza alterarsi.

— Un anno. Forse un anno e mezzo. Ma che differenza fa?

— Prima di allora avremo quei materiali. Dovessi mettere sottosopra tutto il pianeta, li troverò.

Kobol si limitò a rispondere con una risatina ironica.

Tornarono lentamente sui loro passi. La stanca marcia degli uomini sconfitti, pensò Alec. Ma in realtà non si sentiva sconfitto, anzi, era eccitato, quasi felice. Mio padre mi costringe a cercarlo. È il suo primo sbaglio.

Si trovavano a metà del corridoio quando l'auricolare di Alec cominciò a crepitare. — C'è qualcuno… verso di noi… — la voce era debole e resa meno comprensibile dalle continue interferenze.

— Cosa?

— …sola persona… a piedi… noi… qui sull'autoblindo…

Alec si mise a correre e quando fu all'aperto e non ci furono più interferenze, sentì dire con chiarezza: — Ehi ma è una ragazza!

Adesso vedevano anche loro la figuretta snella che si avviava in direzione dell'autoblindo, camminando con passo lento, ma deciso. I cinque raggiunsero il mezzo prima di lei.

— È disarmata — disse Kobol.

— E carina — aggiunse Gianelli.

Piccola e magra, indossava una camicia bianca macchiata e un paio di calzoni lunghi che sottolineavano la curva dei fianchi. Aveva la faccia lunga, seria, e gli occhi grandi. La brezza agitava i capelli biondi, e lei continuava a scostare le ciocche che le ricadevano sulla faccia.

— Pare che abbia un motivo preciso per venire da noi — disse Alec.

— Forse si sente sola — sghignazzò Gianelli.

— Non è per te, nasone — lo rimbeccò un altro.

— Non si vede nessun altro intorno — disse Kobol che esaminava col binocolo i boschi circostanti. — Ma in mezzo a quegli alberi potrebbe nascondersi un intero esercito.

Come l'esercito di Annibale al lago Trasimeno, pensò Alec.

Guardò la ragazza che si stava avvicinando. Aveva una faccia volitiva, con la mascella prominente e gli zigomi sporgenti, e un piccolo naso aristocratico. La bocca era una sottile linea, ferma e decisa. Ma gli occhi erano incerti, un po' impauriti.

— Gianelli — sussurrò Alec — tieni d'occhio gli edifici. La ragazza potrebbe essere un'esca.

— Controlla anche sui fianchi — aggiunse Kobol.

— Preferirei guardare quelli di lei — mormorò Gianelli.

La ragazza alzò la mano destra e si fermò a una ventina di passi dall'autoblindo. Alec le andò incontro. Kobol lo seguì.

— Mi chiamo Angela — disse lei, seria, con voce ferma.

— Io sono Alec e questo è…

— Alexander Morgan e Martin Kobol — disse lei.

— Tu conosci mio padre — asserì Alec. Non era sorpreso.

— È lui che mi ha mandato. Per mettervi in guardia.

Per un attimo Alec ebbe l'impressione che il tempo si fosse fermato. Sentiva il calore del sole sul collo e sulle spalle, vedeva il cielo azzurro e il verde primaverile dei boschi in lontananza, sentiva la voce della ragazza, ma era come se lui si trovasse altrove, più lontano della Luna, e osservasse la scena da una distanza enorme.

— Non ci lasciamo spaventare dagli avvertimenti — disse Kobol.

— Aspetta — lo tacitò Alec. — Metterci in guardia da cosa? — chiese alla ragazza.

— C'è una banda di razziatori che sta dirigendosi verso l'aeroporto. Hanno visto atterrare le vostre navi…

— Perché mai dovrebbero attaccarci? Non hanno paura di noi?

Un pallido sorriso aleggiò sulle labbra di Angela. — Paura di una dozzina di uomini? Sapete quanti sono loro?

— Abbiamo armi sufficienti…


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