L'America Latina era rimasta quasi indenne dalla vampata solare, ma era tagliata fuori dal resto del mondo dagli oceani e dalle distese di terreno radioattivo che inibivano il passaggio a nord. Le grandi città di Rio de Janeiro, San Paolo, Buenos Aires, Lima cominciarono ben presto a disintegrarsi quando l'eccesso di popolazione costrinse gli abitanti a ritirarsi nelle campagne dove la terra consentiva ancora margini di sovravvivenza. Anche nel «fortunato» Sud, senza gli scambi commerciali col resto del mondo, le città morirono. Tornarono in auge gli antichi sistemi di vita: per ottenere il cibo necessario a sopravvivere bisognava lavorare dall'alba al tramonto con utensili fabbricati a mano. La sottile vernice della civiltà si screpolò e scomparve rapidamente.

Le poche centinaia di uomini e donne che vivevano sulla Luna osservavano con crescente orrore la fine del pianeta natale. Loro erano al sicuro sottoterra, protetti anche contro il bagliore normale del sole. Attraverso i telescopi videro il Vecchio Mondo scomparire sotto gigantesche nuvole di fumo e di vapore. Attraverso le radio sentirono i gemiti e le grida dei moribondi. Poi sopravvennero le esplosioni di luce che contrassegnavano la morte nucleare delle città del Nordamerica.

Guardavano e ascoltavano in silenzio, attoniti. E l'orrore andò a poco a poco trasformandosi in un senso di colpa. Sulla Terra morivano tutti. La razza umana veniva spazzata via dalla superficie del proprio pianeta. Loro invece si trovavano sulla Luna, protetti e sicuri nelle sue viscere. Vivevano, mentre le loro madri, i fratelli, gli amici, le persone amate morivano.

Dopo tre giorni di attonito orrore e di un senso di colpa sempre crescente, si guardarono l'un l'altro, e cominciarono a chiedersi: come potremo continuare a sopravvivere senza i rifornimenti di viveri, strumenti, medicine della Terra?

Tutti, uomini e donne, si sentivano colpevoli. L'orrore che provavano era inesprimibile. Nessuno riusciva a esprimere i sentimenti che provava in cuor suo. Le notti si popolarono di incubi. Ma più forte di ogni altra cosa era l'istinto della sopravvivenza. Sepolto nell'intimo di ognuno c'era il bruciante segreto: Io sono vivo, e felice di esserlo. Non importa cosa ne è stato degli altri. Sono contento che non sia capitato a me.

Non tutti i membri della colonia lunare riuscirono a sopportare il peso di quel segreto. Alcuni si rifugiarono nel coma catatonico, qualcun altro si uccise. Altri ancora tentarono di suicidarsi, ma in modo da poter essere scoperti in tempo dagli amici. Persuasi dagli psicologi che non dovevano espiare in quel modo il peccato di essere ancora vivi, tornarono fra i ranghi di quelli che avevano mantenuto l'equilibrio mentale. Due disperati cercarono di sabotare i sistemi di sussistenza, per uccidere se stessi e gli altri, ma furono fermati in tempo, e tutti e due morirono in un letto d'ospedale: uno perché gli era stata somministrata una dose sbagliata di un medicinale, l'altro per un improvviso e imprevisto attacco cardiaco. Il medico che li aveva in cura si strinse nelle spalle e la mattina dopo fu trovato morto per una overdose di barbiturici.

Douglas Morgan, seduto sul bordo del lettino d'ospedale, osservava la faccia di sua moglie che stava dormendo. L'ospedale della colonia lunare disponeva solo di sei letti e due sale operatorie scavate nel solido basalto della crosta lunare. Prima dell'esplosione solare i problemi che i quattro dottori avevano dovuto risolvere erano stati la riduzione di qualche frattura riportata dai minatori, o la cura delle depressioni fra quelli che avevano difficoltà ad adattarsi alla vita sotterranea.

A parte Lisa, non c'erano altri pazienti per il momento. I lavori minerari erano stati sospesi dopo l'esplosione. I casi di depressione erano considerevolmente aumentati, ma nessuno di quelli che ne erano affetti era stato ricoverato. L'ultimo paziente a occupare un letto era stato il sabotatore che era morto in seguito all'attacco cardiaco.

Il viso di Lisa era pallido e tirato. Con gli occhi chiusi pareva quasi una maschera mortuaria. Ma, pensò Douglas, se la morte fosse così bella nessuno la temerebbe. I capelli corti le incorniciavano il viso delicato e parevano più scuri e lucidi in contrasto col bianco della federa e delle lenzuola.

Douglas abbassò lo sguardo e vide che la sua mano sinistra, appoggiata sul letto, era vicina a quella di Lisa. Il contrasto fra le due mani lo affascinava. La mano di lei era così piccola, delicata, quasi fragile accanto alla sua zampa massiccia dalle dita tozze. La mano di Lisa era quella di una ballerina, di una pittrice, di una musicista. La sua pareva creata apposta per scavare la roccia nelle cave lunari, per punzonare equazioni in un computer, per dare indicazioni e sottolineare ordini. Ma sapeva di quale forza fossero capaci quelle mani in apparenza tanto fragili; aveva sentito quelle dita artigliargli il braccio anche attraverso il tessuto spesso e rigido di una tuta pressurizzata.

Si alzò con un sospiro, e stirò i muscoli della schiena sollevando le braccia fino a sfiorare il soffitto con le dita.

Lisa aprì gli occhi e lo guardò. Lo sguardo di quegli occhi scuri smentiva la fragilità del viso. Rivelava un carattere deciso. Nonostante l'apparenza, Lisa era forte come una lama d'acciaio.

— Sei sveglia — disse lui.

— Parti? — chiese lei.

— Sì — rispose Douglas dando un'occhiata all'orologio. — La nave parte fra due ore e devo preparare la mia roba…

— Perché proprio tu?

Lui rimase interdetto. Non gli era mai passato per la testa che potesse essere qualcun altro a guidare la missione.

— E poi, che scopo ha questa spedizione? — continuò Lisa. — È una cosa assurda. Nessuno di voi tornerà vivo.

— Non credo.

Lisa girò lo sguardo sulle pareti di roccia della stanza, che il laser aveva fuso e levigato e che poi erano state tinteggiate di verde pastello. Poi guardò i cinque letti vuoti e infine tornò a guardare il marito.

— È una pazzia — disse. — Vuoi solo tentare di dimostrare quanto sei coraggioso.

Lui abbozzò un sorriso. I terribili avvenimenti. degli ultimi giorni non avevano smorzato lo spirito polemico di Lisa.

Douglas tornò a sedersi sul bordo del letto e disse, soppesando con cura le parole: — Noi siamo una comunità di cinquecentosettantatré persone, fra uomini e donne. Per lo più siamo tecnici e ingegneri minerari. Abbiamo tre medici, cinque psicologi…

— Quattro medici — lo corresse Lisa.

— Tre. Haley è morto la notte scorsa.

Lei accolse la notizia senza scomporsi.

— Data la situazione che si è venuta a creare — riprese Douglas — non siamo in grado di sopravvivere da soli. E non ci arriveranno più rifornimenti dalla Terra… a meno di andare a prendere quello che ci serve.

— Se vai sulla Terra morirai.

— Può anche darsi — ammise lui con un'alzata di spalle. — Forse hai ragione e noi tutti stiamo inconsciamente cercando di sopprimerci con un gesto drammatico invece di starcene qui ad aspettare la morte in questa tomba.

Lisa sospirò di stanchezza e impazienza: — Sei sempre così logico! La Terra è stata distrutta, miliardi di persone sono morte, e tu resti freddo e logico come un computer.

— Noi non siamo morti. Non ancora, almeno. — Il tono era duro, amaro. — E io voglio vivere. Voglio che tu viva, Lisa. Per questo devo guidare la missione che scende sulla Terra. Dobbiamo farlo. Quello che è certo è che prima faremo scalo sulla stazione spaziale in orbita. Quanto poi ad andare sulla Terra… si vedrà.

— Non voglio che tu muoia — disse Lisa con voce atona.

— Perché?

— Perché sei necessario qui. Io ho bisogno di te qui. Tu hai il carattere di un capo. Ho bisogno che tu resti qui per mantenere unita la comunità.

Lui ci pensò sopra per un momento prima di rispondere: — Quello che vuoi dire è che tu hai bisogno che io resti per potere governare la comunità tramite mio.


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