Uno dopo l’altro Susan, Peter e infine Edmund infilarono la testa nell’armadio, scostarono le belle pellicce e i cappotti e videro che sì, era un guardaroba come qualsiasi altro. Non c’era nessun bosco e tanto meno la neve: soltanto un fondo di legno con qualche gancio qua e là.

Peter volle sincerarsi che il fondo fosse ben solido: entrò nell’armadio e batté le nocche in diversi punti. — Ci hai presi in giro, eh, Lucy? Un bello scherzo — disse quando fu di nuovo fuori. — Devo ammettere che stavo quasi per crederti.

— Ma non era uno scherzo — protestò Lucy.

— Avanti, Lu, adesso esageri — disse Peter. — Il trabocchetto è riuscito bene, ho detto che stavamo per crederti.

Lucy arrossì violentemente, aprì la bocca per dire qualcosa, ma siccome non sapeva più cosa dire scoppiò a piangere. Per alcuni giorni fu molto infelice, ma avrebbe potuto rappacificarsi con gli altri in qualsiasi momento. Bastava che confessasse di aver fatto uno scherzo.

Lucy era una ragazzina abituata a dire la verità ed era sicura di aver ragione. Gli altri pensavano che stesse raccontando storie (alquanto assurde, per di più) e lei, nonostante ne soffrisse, non avrebbe potuto dire una bugia per rimediare.

Peter e Susan non accennavano mai all’accaduto; Edmund, invece, sapeva essere molto dispettoso e stavolta lo era più del solito. Continuava a chiederle con aria di scherno se per caso non avesse trovato qualche nuovo paese magico dentro una credenza o un altro armadio. Ce n’erano tanti, in casa… Il peggio era che in quei giorni ci sarebbe stato da divertirsi davvero. Il tempo era splendido, i ragazzi stavano all’aria aperta dalla mattina alla sera: sguazzavano nel ruscello, andavano a pescare e si arrampicavano sugli alberi o prendevano semplicemente il sole sdraiati sull’edera folta. Ma Lucy si divertiva meno degli altri.

Poi tornò a piovere. Un pomeriggio in cui si capiva che il sole non si sarebbe fatto vedere per il resto della giornata, Peter, Susan, Edmund e Lucy decisero di giocare a nascondino. Fecero la conta e toccò a Susan andare a cercare quelli che si erano nascosti.

Fu così che a Lucy capitò di tornare nella famosa stanza vuota, davanti al guardaroba. Neanche per un attimo pensò di nascondersi all’interno, perché gli altri avrebbero ricominciato a fare chiacchiere sull’avventura che aveva vissuto. Voleva dare solo un’occhiatina, perché lei stessa cominciava a dubitare che il paese di Narnia e l’incontro con il fauno non fossero che un sogno.

Appena ebbe aperto la porta dell’armadio, Lucy sentì dei passi in corridoio. Non voleva farsi trovare in quella stanza, perciò non le restò altro che saltare nell’armadio e socchiudere la porta.

I passi erano quelli di Edmund, che entrò giusto in tempo per vedere Lucy infilarsi nell’armadione. Decise di andarle dietro non perché gli sembrasse un buon nascondiglio, ma perché aveva voglia di tormentare Lucy sul paese immaginario. Aprì la porta del guardaroba: c’erano i soliti cappotti e le solite pellicce appesi in bell’ordine, buio e silenzio e odor di naftalina, ma di Lucy neanche l’ombra.

"Forse crede che io sia Susan e se ne sta buona per non farsi scoprire" pensò Edmund. Balzò nell’armadio e si chiuse la porta alle spalle (evidentemente, aveva dimenticato che non bisogna farlo in nessun caso, neanche con un armadio magico).

Edmund cominciò ad agitare le braccia nel buio, sicuro di trovare Lucy quasi subito. Fu sorpreso del contrario, così pensò di aprire la porta per lasciar entrare un po’ di luce, ma non trovò neanche quella. La cosa non gli piacque per niente.

— Lucy! — gridò. — Dove sei, Lu?

Nessuna risposta. Edmund sentì che la sua voce suonava in modo strano, non come avrebbe dovuto nell’enorme cassone: non c’era rimbombo, come se non si trovasse al chiuso ma all’aria aperta, e faceva un gran freddo. Per fortuna, ecco un po’ di luce. — Dio sia lodato — mormorò il ragazzo tra sé. — Dev’essere la porta che si è aperta da sola. — Di Lucy, ormai, non si ricordava più, gli importava solo di uscire al più presto dal buio. Si mise a correre, sicuro di uscire nella stanza vuota, ma sbucò in uno spiazzo deserto, tra grandi abeti dal tronco scuro. Il terreno era coperto di neve friabile e asciutta. Tra i grandi alberi imbacuccati di bianco, il cielo appariva di un bel celeste chiaro, come si vede nelle limpide mattine d’inverno. Proprio davanti a Edmund, ma lontano, sorgeva il sole, tutto rosso e brillante. Ogni cosa era immobile e immersa nel più profondo silenzio, come se il ragazzo fosse l’unica creatura vivente. Non c’era neppure uno scoiattolo, neppure un pettirosso, tra i rami degli alberi: e il bosco si stendeva in tutte le direzioni, a perdita d’occhio. Edmund rabbrividì.

Poi si ricordò di Lucy e di quanto l’avesse presa in giro a proposito del paese immaginario che si era rivelato tutt’altro che immaginario.

— Lucy, Lucy! — gridò. — Sono qui anch’io, Edmund.

Nessuno rispose. "È ancora arrabbiata con me" pensò lui. E siccome non gli piaceva ammettere di aver avuto torto, ma ancor meno gli piaceva restare solo nel bosco, gridò di nuovo: — Ehi, Lucy. Mi dispiace di essere stato cattivo con te, di non averti creduto. Vieni fuori, facciamo la pace. — Ancora silenzio. — Le ragazze sono proprio tutte uguali — borbottò indignato Edmund.

Si guardò intorno e decise che quel posto non gli piaceva affatto: meglio tornare indietro. Stava per farlo, quando sentì un suono di campanelli in lontananza. Ascoltò meglio e scoprì che il suono si avvicinava sempre più, finché vide apparire una slitta trainata da due renne. Erano alte come i cavallini delle isole Shedand, ma avevano un bel mantello bianco, più candido della neve. Le grandi corna ramificate erano color dell’oro e brillavano al sole nascente. Le brighe erano di cuoio scarlatto, orlate di campanellini dorati.

Sulla slitta, al posto di guida, c’era un ometto che, se fosse stato in piedi, non sarebbe arrivato al metro d’altezza. Era un nano grasso, con una gran barba che scendeva a coprirgli le gambe come una coperta da viaggio. Era imbacuccato in una pelliccia d’orso polare e in testa portava un cappuccio rosso con la punta lunga e sottile, ornata da una nappina dorata che gli ballava in modo buffo davanti al naso.

Dietro di lui, su un sedile più alto e situato al centro della slitta, si vedeva una figura ben diversa: era una signora altissima, più di qualsiasi altra donna che Edmund avesse visto, e vestita di pelliccia dal collo alla punta dei piedi. La signora teneva in mano una bacchetta d’oro e d’oro era la corona che portava in testa. Il viso era bianco: non pallido, bianco come un foglio di carta o lo zucchero filato. La bocca spiccava rossa e nell’insieme non c’era niente di brutto, ma l’espressione era quella di una persona altezzosa, fredda e dura.

— Ferma! — ordinò la signora.

Il nano tirò le redini con tanta forza che le renne si bloccarono sul colpo.

— Che cosa sei? — domandò imperiosamente la signora, fissando su Edmund uno sguardo gelido.

— C-cosa… s-sono? Mi chiamo Edmund — rispose lui goffamente. Non gli piaceva essere guardato in quel modo.

— È questo il modo di parlare con una regina? — chiese ancora lei, accigliandosi.

— Mi scusi, Maestà, non lo sapevo — balbettò Edmund.

— Non conosci la regina di Narnia? Ah. Mi conoscerai meglio in seguito, vedrai — esclamò lei, poi riprese: — Ma chi sei? Cosa sei?

— Mi scusi, Maestà, ma non capisco la domanda — rispose Edmund. — Sono uno che va a scuola. Ma oggi è vacanza. Cioè, andavo a scuola. Ora sono in vacanza.


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