Ma prima di tutto…
Con la coda dell’occhio, Gray continuò a controllare il riflesso del ponte nelle acque placide del canale. In quello specchio tremolante, guardò la ragazza curvare la schiena, sollevando lo zaino nel vano tentativo di nascondere i propri lineamenti.
Si era accorta di essere stata scoperta?
«Comandante Pierce?» fece Logan.
La ragazza raggiunse l’estremità del ponte, si allontanò a passo sostenuto e scomparve in una stradina laterale. Gray aspettò per verificare se ritornava sui propri passi.
«Comandante Pierce, ha ricevuto quell’indirizzo?»
«Sì. Ci andrò.»
«Molto bene.» Logan riagganciò.
Dal parapetto del canale, Gray passò al vaglio l’area circostante, attendendo il ritorno della ragazza o la comparsa di eventuali complici. Rimpianse di aver lasciato la Glock da 9 mm nella cassetta di sicurezza dell’hotel. Ma le istruzioni della casa d’aste avvisavano tutti gli invitati che sarebbero stati perquisiti all’entrata, passando anche attraverso un metal detector. L’unica arma che aveva era un coltello di plastica al carbonio, in un fodero nascosto negli stivali. Nient’altro.
Gray aspettò.
Intanto la città si stava risvegliando e un traffico di pedoni cominciava a fluire attorno a lui. Alle sue spalle, un negoziante dall’aspetto cadaverico stava riempiendo di ghiaccio una serie di cassette e gettandovi sopra una selezione di pesce fresco: sogliola di Dover, merluzzo, cicerello e l’onnipresente aringa.
Alla fine l’odore lo scacciò dalla sua postazione sul canale. Si allontanò, guardandosi le spalle con particolare cautela. Forse era troppo paranoico, ma nella sua professione una nevrosi di quel genere era salutare. Tastò il pendaglio a forma di drago che portava al collo e s’inoltrò nel centro cittadino.
Dopo alcuni isolati, si sentì abbastanza sicuro per tirar fuori un taccuino. Sulla prima pagina erano appuntati gli oggetti di particolare interesse che sarebbero stati messi all’asta quel pomeriggio.
1. Una copia del trattato di genetica di Gregor Mendel del 1865.
2. I libri di fisica di Max Planck: Thermodynamik del 1897 e Theorie der Wärmestrahlung del 1906, entrambi firmati dall’autore.
3. Il diario del botanico Hugo De Vries sulle mutazioni vegetali, del 1901.
Gray aveva annotato tutte le informazioni possibili su quegli oggetti, grazie alle ricerche del giorno precedente. Appuntò l’ultimo articolo.
4. La Bibbia di famiglia di Charles Darwin.
Mentre richiudeva il taccuino, si chiese per la centesima volta da quando era arrivato: Qual è il collegamento?
Forse era meglio lasciar risolvere quell’enigma a qualche altro membro della Sigma. Pensò di chiedere a Logan di raccontare alcuni dei particolari ai suoi colleghi Monk Kokkalis e Kathryn Bryant. I due si erano rivelati esperti nel mettere assieme i dettagli e costruire schemi dove non ne esistevano. Ma, d’altra parte, forse non c’era davvero nessuno schema. Era troppo presto per dirlo. Gray doveva raccogliere qualche informazione in più, qualche fatto concreto, soprattutto su quell’ultimo articolo.
Fino ad allora, avrebbe lasciato in pace i due piccioncini.
Washington, D.C.,
ore 21.32 (ora locale)
«Davvero?» Monk appoggiò il palmo della mano sul ventre nudo della donna che amava. S’inginocchiò accanto al letto, con indosso i pantaloni della tuta Nike nera e arancione. La sua maglietta bagnata era sul parquet, dove l’aveva gettata dopo il jogging della sera. Nella speranzosa aspettativa, aveva inarcato le sopracciglia, gli unici peli rimasti sulla testa rasata.
«Sì», confermò Kat. Spostò delicatamente la mano di lui e si lasciò rotolare giù dall’altro lato del letto.
Il sorriso di Monk si dilatò. Non riusciva a trattenersi. «Sei sicura?»
Kat si diresse verso il bagno, con indosso soltanto un paio di mutandine bianche e una maglietta Georgia Tech di taglia enorme. I capelli castano chiari, dai riflessi ramati, le ricadevano sciolti sulle spalle. «Avevo un ritardo di cinque giorni», rispose imbronciata. «Ho fatto un test di gravidanza EPT ieri.»
Monk si alzò. «Ieri? Perché non me l’hai detto?»
La donna scomparve in bagno, lasciando la porta socchiusa.
«Kat?»
La sentì aprire l’acqua della doccia. Girò attorno al letto e raggiunse l’entrata del bagno. Voleva saperne di più. Kat gli aveva dato quella notizia esplosiva quando lui era tornato dal jogging. L’aveva trovata raggomitolata sul letto, con gli occhi e il viso gonfi. Aveva pianto. C’era voluta un po’ di persua sione per scoprire che cosa l’avesse afflitta tutto il giorno.
Bussò alla porta. Suonò più forte e più pressante di quanto non intendesse. Guardò con cipiglio la mano incriminata. La protesi a cinque dita era l’ultimo ritrovato, pieno zeppo dei più moderni gadget della DARPA. Gli avevano dato quella mano dopo che aveva perso la sua in una missione, ma plastica e metallo non erano come la carne. Quando aveva bussato alla porta era sembrato che volesse abbatterla.
«Kat, parlami», disse con gentilezza.
«Faccio solo una doccia rapida.»
Quelle parole erano appena sussurrate, ma Monk percepì la tensione nella voce di lei. Sbirciò nel bagno. Anche se si frequentavano da quasi un anno e ormai lui aveva un suo cassetto nell’appartamento di lei, c’erano dei limiti all’intimità.
Kat era seduta sul water chiuso dal coperchio, con la testa tra le mani.
«Kathryn…»
Lei alzò lo sguardo, evidentemente sorpresa dall’intrusione. «Monk!» Si sporse verso la porta, per chiuderla completamente.
Lui la bloccò col piede. «Non stavi davvero usando il gabinetto.»
«Aspettavo che si scaldasse l’acqua della doccia.»
Entrando, Monk notò lo specchio appannato. La stanza profumava di gelsomino, una fragranza che evocava e rimescolava un sacco di cose dentro di lui. Fece un passo avanti e s’inginocchiò ancora una volta di fronte a lei.
La donna si ritrasse.
Lui posò le mani, una di carne, una sintetica, sulle sue ginocchia.
Lei evitava di guardarlo negli occhi, il capo ancora chino.
Lui le divaricò le ginocchia, si chinò tra di esse e fece scorrere le mani all’esterno delle cosce di lei, fino a prenderle i glutei. Poi la attirò verso di sé.
«Devo…» cominciò lei.
«Devi venire qui.» La sollevò e poi se l’adagiò in grembo, seduta a cavalcioni su di lui. I loro visi non distavano più di un respiro.
Finalmente lei lo guardò negli occhi. «Scusa… mi dispiace!»
Lui le si avvicinò ancora di più. «Per cosa?» Le loro labbra si sfiorarono.
«Avrei dovuto stare più attenta.»
«Non ricordo di essermi lamentato.»
«Ma questo genere di errori…»
«Mai.» La baciò vigorosamente, non con rabbia, ma con rassicurante fermezza. Sussurrò tra le labbra di lei: «Non chiamarlo mai così».
Lei si sciolse nel suo abbraccio, cingendolo attorno al collo. Aveva i capelli profumati di gelsomino. «Che cosa facciamo?»
«Forse non so tutto, ma la risposta a questa domanda ce l’ho.»
Rotolando su un fianco, la adagiò sul tappetino su cui era seduto.
«Oh…» sospirò lei.
Copenhagen, Danimarca,
ore 07.55
Gray era seduto nel caffè di fronte alla piccola bottega di antiquariato e studiava l’edificio sul lato opposto della strada.
Sulla vetrina era impressa la scritta SJÆLDEN BØGER, LIBRI RARI. La bottega occupava il piano terra di una villetta a schiera a due livelli, col tetto di mattoni rossi. Sembrava una costruzione identica alle sue vicine, allineate l’urta accanto all’altra lungo la strada. E come le altre, in quel quartiere meno benestante della città, era in cattivo stato. Le finestre del piano superiore erano sbarrate con assi di legno e anche la vetrina del negozio era protetta da un’inferriata di acciaio a saracinesca.