Quando le barche furono caricate, Jakob affiancò Tola. «Salga sulla barca.» Avrebbe voluto suonare austero, ma qualcosa sul volto di lei aveva ammorbidito le sue parole.

La donna obbedì, con lo sguardo ancora rivolto alla Cattedrale e i pensieri diretti ancora più in alto. In quel momento, Jakob vide quanto poteva essere bella… sebbene fosse una Mischling. Poi lei urtò qualcosa con la punta dello stivale, inciampò e recuperò l’equilibrio, facendo attenzione al bambino. I suoi occhi si posarono nuovamente sulle acque grigie e sulla cappa di fumo. I suoi lineamenti tornarono a inasprirsi in un’espressione dura come la pietra. Anche lo sguardo si fece spietato, mentre cercava un posto per sé e il bambino. Si sedette su una panchina a dritta, e la guardia le rimase appiccicata.

Jakob si sedette di fronte a loro, poi fece cenno al pilota della barca di partire. «Non dobbiamo fare tardi.»

Scrutò il fiume. Erano diretti a ovest, lontano dal fronte orientale, lontano dal sole che sorgeva. Guardò l’orologio. A quell’ora ci doveva già essere un aereo da trasporto Junker Ju 52 pronto ad aspettarli, in un aeroporto abbandonato, a dieci chilometri da lì. Ci avevano dipinto sopra il logo della Croce Rossa tedesca, mimetizzandolo come trasporto medico: una piccola assicurazione aggiuntiva contro eventuali attacchi. Le barche navigarono in cerchio e s’immisero nel canale più profondo, coi motori che strillavano. Ormai i russi non potevano più fermarli. Era fatta.

Un movimento all’altra estremità della barca richiamò l’attenzione di Jakob. Tola si chinò sul bambino e lo baciò teneramente sulla testa. Poi sollevò il viso, incrociando lo sguardo del militare.

Jakob non vide né sfida né rabbia. Soltanto determinazione. Capì che cosa voleva fare. «No!»

Troppo tardi.

Sollevandosi, Tola si sporse oltre il basso parapetto dietro di lei. Stringendosi al petto il bambino, si lanciò all’indietro nell’acqua gelida. L’uomo che la sorvegliava, sorpreso dall’azione improvvisa, si voltò e sparò alla cieca nell’acqua.

Jakob gli si gettò addosso e gli sollevò il braccio con uno strattone. «Potresti colpire il bambino!»

Il comandante si sporse dalla barca e studiò l’acqua. Gli altri uomini si erano alzati in piedi.

Jakob vide soltanto il proprio riflesso nell’acqua. Fece cenno al pilota di girare lì attorno.

Nulla.

Cercò qualche bolla rivelatrice, ma la scia della pesante imbarcazione rimestava le acque e non rimaneva altro che oscurità. Batté un pugno sul parapetto.

Tale padre, tale figlia…

Soltanto i Mischlinge potevano agire in modo così drastico. L’aveva già visto succedere altre volte: madri ebree che soffocavano i loro stessi figli per risparmiargli ulteriori sofferenze. Pensava che Tola fosse più forte. Ma, dopotutto, forse non aveva scelta.

La perlustrazione proseguì. I suoi uomini cercarono su entrambe le rive. Era sparita. Il fischio di un colpo di mortaio sopra le loro teste li scoraggiò dall’indugiare oltre.

Jakob fece cenno ai suoi uomini di riprendere posto sulle barche. Puntò a ovest, verso l’aeroplano che li attendeva. Avevano ancora le casse e tutti i documenti. Era un imprevisto, ma vi si poteva rimediare. Dove c’era un bambino, poteva essercene anche un altro.

«Andiamo», ordinò.

Le due barche partirono nuovamente, i motori spinti al massimo. Dopo qualche istante svanirono nella cappa di fumo, mentre Breslavia continuava a bruciare.

Tola sentì il suono delle barche scemare in lontananza. Si teneva a galla dietro uno dei grossi piloni di pietra che sostenevano l’antico ponte di ghisa della Cattedrale. Teneva una mano sulla bocca del bambino, costringendolo al silenzio, pregando che riuscisse a incamerare abbastanza aria dal naso. Ma il piccolo era debole. Proprio come lei.

Il proiettile le aveva perforato il collo. Il sangue scorreva abbondante, macchiando l’acqua di rosso cremisi. Le si stava annebbiando la vista, ma lei continuava a lottare per tenere il bambino fuori dall’acqua.

Quando si era gettata nel fiume, l’aveva fatto con l’intenzione di affogare assieme a lui. Ma poi si era sentita gelare, mentre il collo le bruciava, e qualcosa aveva fatto breccia nella sua determinazione. Si era ricordata del sole che illuminava le guglie. Quella non era la sua religione e nemmeno la sua cultura d’origine, ma in qualche modo le ricordava che oltre l’oscurità di quel momento c’era la luce. Da qualche parte c’erano uomini che non dilaniavano i propri fratelli e madri che non annegavano i propri figli.

Si era spinta più in profondità nel canale, lasciandosi trasportare dalla corrente, verso il ponte. Sott’acqua, aveva tenuto in vita il bambino chiudendogli le narici e insufflandogli attraverso le labbra l’ossigeno che le rimaneva nei polmoni. Anche se aveva programmato di morire, una volta innescata, la lotta per la vita era diventata sempre più intensa, come un fuoco nel petto.

Il bambino non aveva ancora un nome.

Nessuno doveva morire senza nome.

Aveva soffiato delicatamente in bocca al bambino, respiri leggeri, mentre batteva i piedi assecondando la corrente, procedendo alla cieca. Era stato per pura fortuna che era riemersa dietro uno dei piloni di pietra, trovando così un rifugio.

Ma, dopo che le barche erano partite, non poteva più aspettare.

Il sangue sgorgava copioso. Aveva l’impressione che fosse soltanto il freddo a tenerla in vita. Ma lo stesso freddo stava congelando a morte la fragile creatura.

Nuotò verso la riva, battendo l’acqua in modo frenetico e scoordinato, debole e intorpidita com’era. Cominciò ad affondare, trascinando il neonato con sé.

No.

Lottò per riemergere, ma all’improvviso l’acqua si fece più pesante, più difficile da contrastare.

Si rifiutò di soccombere.

Poi sbatté con gli stivali contro il fondo di pietre scivolose. Gridò, dimenticando di essere ancora sott’acqua, rischiando di soffocare per quella bevuta di acqua di fiume. Affondò ancora un po’, poi diede un’ultima spinta coi piedi, contro le pietre fangose. La testa emerse dall’acqua e il corpo si scagliò verso la riva.

Sotto i piedi, la sponda risaliva scoscesa.

Carponi, la donna s’issò fuori dal fiume, stringendosi il bambino al collo. Giunta finalmente a riva, cadde a faccia in giù sulla ghiaia. Non aveva la forza di muovere un dito. Il bambino era intriso del suo sangue. Le ci volle uno sforzo estremo per concentrarsi sul piccolo.

Non si muoveva. Non respirava.

Chiuse gli occhi e pregò, mentre un’oscurità eterna la inghiottiva. Piangi, maledetto, piangi…

Padre Varick fu il primo a sentire i mugolii. Lui e i suoi confratelli si erano rifugiati nella cantina sotto la chiesa dei Santi Pietro e Paolo. Erano fuggiti all’inizio dei bombardamenti, la sera precedente. In ginocchio, avevano pregato che la loro isola fosse risparmiata. La chiesa, costruita nel XV secolo, era sopravvissuta all’avvicendarsi continuo di signori e padroni di quella città di confine. Loro chiedevano una protezione dal cielo per poter sopravvivere ancora.

Fu in quel devoto silenzio che i gemiti lamentosi giunsero alle orecchie dei monaci. Padre Varick si alzò, cosa che richiese un grande sforzo alle sue gambe decrepite.

«Dove vai?» chiese Franz.

«Sento che il mio gregge mi chiama», rispose il frate. Negli ultimi due decenni aveva nutrito di avanzi i gatti che bazzicavano lì attorno e a volte anche qualche cane randagio che frequentava la chiesa lungo il fiume.

«Non è il momento, adesso», lo ammonì un altro confratello, con la voce pregna di paura.

Padre Varick aveva vissuto troppo a lungo per temere la morte con tale fervore giovanile. Attraversò la cantina e si chinò per entrare nel breve corridoio che terminava con una porta sul fiume. In passato quel corridoio era servito a trasportare carbone, che veniva immagazzinato dove ormai, tra la polvere e il legno di quercia, erano custodite soltanto bottiglie di vino pregiato.


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