STEPHEN KING

JOYLAND

Traduzione di Giovanni Arduino

Sperling & Kupfer

Joyland

Copyright © 2013 by Stephen King

Published by agreement with the author

c/o The Lotts Agency, Ltd © 2013

Sperling & Kupfer Editori S.p.A.

ISBN 978-88-200-5427-4 86-1-13

Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell'immaginazione dell’autore o usati in chiave fittizia. Qualsiasi rassomiglianza a fatti reali o a persone, realmente esistenti o esistite, è puramente casuale.

A Donald Westlake

Joyland

La macchina ce l’avevo, ma la maggior parte delle volte, in quell’autunno del 1973, me la feci a piedi da Joyland agli appartamenti sulla spiaggia della signora Shoplaw, a Heaven’s Bay. Sembrava la soluzione migliore. L’unica, in effetti. Ai primi di settembre, Heaven’s Beach era quasi completamente deserta, in perfetta sintonia con il mio umore. È stato l’autunno più bello della mia vita; continuo a sostenerlo anche quarant’anni dopo. E, allo stesso tempo, non mi sono mai sentito così infelice. La gente pensa che il primo amore sia tanto dolce, e lo diventi ancora di più quando il legame si spezza. Conoscerete almeno un migliaio di canzoni pop e country sull’argomento, con qualche povero scemo dal cuore infranto. Ma quella prima ferita è la più dolorosa, la più lenta a guarire e lascia una cicatrice orribile. Che ci sarà di dolce…

Da settembre a ottobre, il cielo della Carolina del Nord era limpido e l’aria calda fin dalle sette del mattino, quando scendevo dalle scale esterne della mia camera al primo piano. Se avevo addosso una casacca leggera, di sicuro finivo per legarmela alla vita prima di avere percorso metà dei cinque chilometri che separavano la città dal parco divertimenti.

Mi fermavo sempre da Betty’s Bakeryper un paio di croissant ancora caldi. La mia ombra mi seguiva sulla sabbia, lunga almeno sei metri. I gabbiani speranzosi sentivano il profumo dei dolci nella carta oleata e mi facevano la posta dall’alto del cielo. E alla sera, quando ritornavo (senza fretta, non c’era nulla per cui valesse la pena di farlo, non a Heaven’s Bay, che si assopiva già alla fine dell’estate), l’ombra mi camminava accanto sull’acqua. Con l’alta marea ondeggiava appena, sembrava che ballasse pigramente.

Non ne sono proprio sicuro, ma credo che la donna e il ragazzino con il cane fossero lì fin dalla mia prima passeggiata. Il litorale che univa la città alla chiassosa e rutilante paccottiglia di Joyland era fiancheggiato da case di villeggiatura, molte dall’aspetto costoso e per la maggior parte chiuse a doppia mandata dopo la festa del Lavoro, all’inizio di settembre. Non la più grande di tutte, però, quella che somigliava a un castello verde di legno. Lina passerella scendeva dall’ampio patio sul retro fino al punto in cui i lunghi ciuffi d’erba lasciavano il posto alla fine sabbia bianca. Al termine del sentiero, un tavolo da picnic riparato da un ombrellone verde brillante. Sotto la sua ombra, un ragazzino sulla sedia a rotelle, con un berretto da baseball e una coperta dalla vita in giù anche nel tardo pomeriggio, quando la temperatura si aggirava intorno ai venti gradi. Dimostrava una decina d’anni, vissuti molto male. Il cane, un Jack Russell terrier, gli stava accucciato ai piedi o di fianco. La donna era seduta su una delle panchine attorno al tavolo, ogni tanto impegnata a leggere un libro ma in genere con lo sguardo perso lungo l’oceano. Era bellissima.

Che andassi o tornassi, non mancavo mai di salutarli con un cenno della mano, e il ragazzino ricambiava. Lei no, almeno non all’inizio. Il 1973 era l’anno della crisi energetica, quando Richard Nixon dichiarò che non era un imbroglione e quando morirono Edward G. Robinson e Noël Coward. L’anno perduto di Devin Jones. Ero un verginello di ventun anni con aspirazioni letterarie. Avevo tre paia di blue jeans, quattro di boxer, un rottame di Ford (con una buona radio), sporadiche idee suicide e un cuore spezzato.

Che dolce, eh?

A spezzarmelo era stata Wendy Keegan, che non mi meritava. Ci ho impiegato la maggior parte della vita a capirlo ma, come si suol dire, meglio tardi che mai. Lei veniva da Portsmouth, New Hampshire; io da South Berwick, Maine. Quasi la ragazza della porta accanto. Avevamo incominciato a «fare sul serio» (per usare una nostra espressione) al primo anno all’Università del New Hampshire. Ceravamo persino incontrati alla festa delle matricole, e questo è proprio dolce; proprio come in una canzone.

Per due anni fu impossibile dividerci, facevamo qualsiasi cosa e andavamo dappertutto insieme. Qualsiasi cosa tranne quello.Eravamo entrambi studenti lavoratori, lei nella biblioteca e io in mensa. Ci venne offerta l’occasione di continuare a sgobbare durante l’estate del 1972 e non ci fu bisogno di ripetercelo due volte. La paga non era granché ma l’opportunità di rimanere insieme non aveva prezzo. Pensavo che sarebbe andata così anche nel ’73, finché Wendy non mi informò che aveva trovato un impiego con l’amica Renee da Filene’s, a Boston.

«E io?» chiesi.

«Puoi sempre venire giù a trovarmi», rispose lei. «Mi mancherai da morire, Dev, ma probabilmente ci farà bene passare un po’ di tempo da soli.»

Una frase che quasi sempre è una condanna a morte. Forse se ne accorse, perché si alzò sulla punta dei piedi e mi baciò. «La lontananza rinfocola la passione. E comunque, visto che avrò un posto mio, potresti fermarti da me.»

Ma non mi guardava negli occhi quando lo disse, e l’opportunità non si presentò mai. Troppi coinquilini, affermava, e troppo poco tempo. Certo, simili problemi non sono insormontabili, ma lo furono per noi, un particolare che avrebbe dovuto suggerirmi qualcosa; anzi, parecchio, almeno con il senno di poi. In molte occasioni ci trovammo vicinissimi a «farlo», ma non capitò mai. Lei si tirava sempre indietro e io decisi di non insistere. Buon Dio, mi comportavo da perfetto gentiluomo. Da allora mi sono immancabilmente chiesto che cosa sarebbe successo, nel bene e nel male, se avessi scelto un atteggiamento diverso. Con il passare del tempo, ho scoperto che raramente i gentiluomini trombano. Una massima degna di essere ricamata su una tovaglietta da appendere in cucina.

L’idea di un’altra estate passata a ramazzare i pavimenti della mensa e a riempire di stoviglie lerce le vecchie lavapiatti non mi andava tanto a genio, non mentre Wendy si sarebbe divertita un centinaio di chilometri a sud sotto le sfavillanti luci di Boston. Però era un lavoro sicuro, mi serviva e non avevo altre prospettive. Poi, alla fine di febbraio, una nuova possibilità mi arrivò letteralmente tra le mani grazie al nastro trasportatore della cucina.

Qualcuno stava leggendo un numero di Carolina Livingmentre si ingozzava di hamburger e patatine alla messicana, il piatto speciale del giorno. Aveva lasciato la rivista sul vassoio, che raccattai insieme con il resto. Stavo per buttarla nella spazzatura, ma pensai che una lettura gratis non andava sprecata (non dimenticatevi che ero uno studente lavoratore). La infilai nella tasca posteriore dei pantaloni e me ne dimenticai fino al ritorno nella mia stanza del dormitorio. Mentre mi stavo cambiando, cadde a terra, aprendosi alla rubrica degli annunci economici.

Il proprietario aveva circolettato numerose offerte di lavoro; alla fine doveva avere deciso che nessuna faceva al caso suo, altrimenti Carolina Livingnon sarebbe mai finita tra le mie grinfie. In fondo alla pagina, un’inserzione catturò la mia curiosità anche se non era stata evidenziata. La prima riga recitava: VIENI A JOYLAND A LAVORARE IN UN POSTO DA FAVOLA! Quale studente di lettere sarebbe rimasto indifferente di fronte a un simile invito? E quale ventunenne con l’umore a terra, e la crescente convinzione di essere presto mollato dalla fidanzata, avrebbe resistito all’idea di trasferirsi nella «terra della gioia»?


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