«Sì, oggi è una giornataccia per tutti noi. Però, prima di andartene, un’ultima cosa: hai già incontrato il ragazzo? Quello con il cane? O la bambina con il cappello rosso e la bambola sottobraccio? Quando ci siamo visti, ti ho parlato anche di loro.»

«Roz, mi sono passati sotto gli occhi miliardi di piccoletti nelle ultime…»

«Allora la risposta è no. Va bene. Ti capiterà.» Sporse in avanti il labbro inferiore, sbuffando per scostare la ciocca di capelli che scappava dal foulard. Poi mi afferrò per il polso. «Vedo del pericolo in serbo per te, Jonesy. Dolore e pericolo.»

Per un attimo pensai che avrebbe sussurrato qualcosa alla Buck Owens, tipo: «Bada allo sconosciuto vestito di nero…» magari aggiungendo: «… che guida un monociclo!» Invece mollò la presa e indicò il Castello del Brivido. «A quale gruppo è toccato quel buco infernale? Non al tuo, mi auguro.»

«No, alla Squadra Dobermann.» I Dob si occupavano anche delle attrazioni vicine: il Labirinto di Mysterio e il Museo delle Cere. Il timido omaggio di Joyland alle case del terrore dei vecchi luna park.

«Perfetto. Stanne lontano. È stregato, e un ragazzo con brutti pensieri per la testa ha bisogno di un posto simile come dell’arsenico nel collutorio. Mi sono spiegata?»

«Certo.» Guardai l’orologio.

Lei capì l’antifona e si allontanò. «Prima o poi incontrerai quei due. E stai attento: un’ombra grava su di te, giovanotto.»

Senza dubbio, Lane e Rozzie mi misero addosso una bella paura. Non accantonai subito i dischi dei Doors, ma mi sforzai di mangiare di più, scolandomi tre frappé al giorno. Cominciai a sentirmi pieno di nuova energia, come se qualcuno avesse azionato un interruttore, e ne feci buon uso il pomeriggio del giorno dell’indipendenza. Joyland era svalvolata e avrei dovuto indossare il costume dieci volte in una sola giornata, un primato assoluto.

Fu Fred Dean in persona a consegnarmi la tabella di marcia, insieme con un messaggio del signor Easterbrook.

Se non ce la fai, fermati immediatamente e avvisa il tuo caposquadra di trovare un sostituto.

«Non mi succederà niente», affermai.

«Può darsi, ma assicurati che Pop veda questo appunto.»

«D’accordo.»

«Tu piaci a Brad, Jonesy. Succede di rado. In genere nota un pivello solo quando combina un guaio.»

Anche a me piaceva Easterbrook, ma non lo confessai a Fred. Non mi andava di passare per un leccaculo.

Tutte le mie esibizioni del quattro luglio erano di dieci minuti; non una grande fatica, anche se molte sfiorarono poi il quarto d’ora, però il caldo era soffocante.

Trentacinque all’ombra, aveva predetto Roz, ma a mezzogiorno il termometro appeso fuori dalla centrale operativa del parco segnava trentanove gradi. Fortunatamente Dottie Lassen aveva fatto riparare la seconda tuta extra large, dandomi l’opportunità di giostrarmi tra le due. Mentre ne indossavo una, lei stendeva l’altra al rovescio davanti a tre ventilatori, asciugando l’interno zuppo di sudore.

Almeno avevo imparato a togliermi il travestimento senza l’aiuto di nessuno. La zampa destra di Howie in realtà era un guanto e, una volta scoperto il trucco, abbassarsi la cerniera lampo partendo dal collo era uno scherzo. Una volta sfilata la maschera, il resto veniva da sé. Niente male, perché così ero in grado di cambiarmi dietro una tenda, senza mostrare alle costumiste i miei boxer fradici e semitrasparenti.

Mentre il pomeriggio di festa proseguiva in un trionfo di bandiere, venni dispensato da ogni altro compito. Facevo la mia apparizione e poi mi ritiravo sottoterra, stramazzando sul vecchio divano sgangherato del pulciaio per qualche minuto, assaporando la frescura dell’aria condizionata. Quando ritornavo in me, raggiungevo la sartoria attraverso i passaggi in mezzo ai baracconi e cambiavo il costume, restituendo quello appena usato. Tra un’esibizione e l’altra, tracannavo litri d’acqua e caraffe di tè freddo senza zucchero. Anche se rischia di sembrare incredibile, mi divertivo un mondo. Quel giorno mi adorarono persino i mocciosi più pestiferi.

Allora: le quattro meno un quarto del pomeriggio. Sto ballando lungo la Passeggiata di Joyland, il cuore pulsante del parco, mentre gli altoparlanti sopra di me sparano a pieno volume Chick-A-Boomdi Daddy Dewdrop. Distribuisco abbracci a tutti i bambini e buoni sconto agli adulti per il nostro Agosto da Sballo, visto che gli incassi scendono in picchiata verso la fine dell’estate. Mi metto in posa per un miliardo di fotografie (alcune scattate dalle Sirene di Hollywood, ma la maggior parte da genitori armati di apparecchio, scottati dal sole e grondanti sudore), tirandomi dietro code di piccoletti adoranti come la più brillante delle stelle comete. Sto anche adocchiando l’entrata più vicina per la Sotterranea, perché mi sento esausto. Mi rimane solo un ultimo spettacolo: il Simpatico Howie non si fa mai vedere dopo il tramonto con i suoi occhioni azzurri e le sue orecchie dritte. Un’antica tradizione del posto. Chissà perché.

Secondo voi mi accorsi della bambina con il cappello rosso prima che crollasse sussultando sull’asfalto rovente della Passeggiata? Credo di no, ma non ne sono sicuro.

Il passare del tempo aggiunge falsi ricordi, modificando quelli veri. Di certo non avrei mai potuto notare il Cucciolotto che brandiva o il suo cancappello; in un parco giochi una marmocchietta con un hot dog in mano non è una rarità, e quel giorno avremmo venduto migliaia di berretti rossi di Howie. Se davvero la vidi, fu grazie al pupazzo che stringeva al petto con la mano non impegnata a reggere il salsicciotto spalmato di senape. Era una tipica bambola di pezza con il grembiule a quadri e i capelli di lana. Pochi giorni prima Madame Fortuna mi aveva messo in guardia e forse ero pronto. O magari stavo solo pensando di telare via prima di crollare a terra svenuto. Comunque, il problema era l’hot dog che lei era intenta a divorare, non la bambola.

Pensodi ricordarla correre verso di me (come facevano tutti, del resto), ma so quel che successe dopo, e anche il perché. In bocca aveva un pezzo di Wurstel, che le andò di traverso quando prese fiato per gridare: Howieeee.Gli hot dog: il cibo perfetto con cui strozzarsi. Per sua fortuna, un po’ delle stronzate di Rozzie Gold mi erano rimaste nella zucca e mi mossi senza esitare.

Quando alla bambina cedettero le ginocchia e la sua espressione entusiasta si fece dapprima sorpresa e poi terrorizzata, mi ero già sfilato la zampa e mi stavo abbassando la cerniera lampo. La maschera ricadde di colpo, ciondolando di lato, portando allo scoperto il volto paonazzo e i capelli arruffati e sudati del signor Devin Jones. La piccola lasciò cadere per terra la bambola di pezza e iniziò a stringersi il collo, il cappello ormai rotolato via.

«Hallie?» gridò una donna. «Hallie, che ti succede?»

Grazie a un’ulteriore botta di fortuna, non solo sapevo che cosa stesse capitando ma anche come intervenire. Spero vi sia ben chiara la casualità del tutto. Stiamo parlando del 1973 e Harry Heimlich avrebbe pubblicato il saggio sull’omonima manovra per liberare le vie aeree solo l’anno successivo. Però era sempre stata la tecnica più sensata per risolvere un caso di soffocamento; noi studenti l’avevamo imparata nel nostro primo e unico corso di addestramento prima di iniziare il lavoro nella mensa universitaria. Ce la insegnò un veterano della ristorazione che aveva perso la sua tavola calda di Nashua nella battaglia contro McDonald’s.

«Ricordatevi, perché funzioni dovete metterci tutta la vostra forza», si raccomandava. «Se qualcuno vi sta morendo davanti, non preoccupatevi di rompergli una costola.»

Quando la bambina diventò cianotica, le sue costole furono il mio ultimo pensiero. L’avvolsi in un enorme abbraccio peloso, premendole contro lo sterno la zampa sinistra che manovrava la coda. Diedi una sola, potente stretta e un pezzo di Wurstel macchiato di giallo, lungo quasi cinque centimetri, le uscì di bocca con uno schiocco come un tappo da una bottiglia di champagne, atterrando un metro più in là. E, nossignori, non le spezzai manco un osso. I bambini sono fatti di gomma, grazie al cielo.


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