Ged la guardò, quando Tenar fece il suo ingresso; fino a un attimo prima non aveva guardato la porta, ma più in là, sulla destra, l’angolo in ombra dietro il battente. C’era il bastone di Ogion, di quercia, pesante, liscio dove il mago lo afferrava, alto come lo stesso Ogion. Accanto Therru aveva messo il bastone di nocciolo e quello di ontano che Tenar aveva tagliato per loro, sulla strada per Re Albi.

Tenar pensò: il suo bastone di mago, il bastone di tasso, quello che gli ha dato Ogion, dov’è? E nello stesso tempo: perché questo particolare mi è venuto in mente soltanto ora?

Nella casa era buio, e si aveva un’impressione di chiuso. Tenar provò un senso di oppressione. Aveva sperato di poter parlare con Ged, ma all’improvviso si accorse di non avere niente da dirgli, e che anche Ged non aveva niente da dire a lei.

«Ho pensato», disse infine la donna, mettendo in ordine i quattro piatti, sul ripiano di quercia, «che ormai dovrei ritornare alla mia fattoria.»

Ged non disse niente. Forse fece un cenno con la testa, ma in quel momento Tenar gli voltava la schiena.

Tutt’a un tratto, lei si accorse di essere molto stanca, e sentì il bisogno di andare a dormire; ma Ged sedeva davanti all’ingresso, e non era ancora buio; Tenar non poteva svestirsi davanti a lui. Per la vergogna, provò una forte irritazione; stava per chiedergli di uscire un momento, quando Ged si schiari la gola e parlò, in tono leggermente esitante.

«I libri», disse. «I libri di Ogion. Il libro delle Rune e i due libri delle formule e dei miti. Li porti via con te?»

«Con me?»

«Sei stata il suo ultimo allievo.»

Tenar si avvicinò al focolare e si sedette sulla sedia a tre gambe appartenuta a Ogion.

«Avevo imparato a scrivere le Rune hardiche, ma credo ormai di essermele dimenticate. Inoltre aveva cominciato a insegnarmi la lingua dei draghi, e in parte me la ricordo ancora. Ma nient’altro. Non sono mai diventata un mago, un adepto. Mi sono sposata, te l’ho detto. Pensi che Ogion avrebbe lasciato i suoi libri magici alla moglie di un fattore?»

Dopo una breve pausa, Ged chiese: «Allora, non li ha lasciati a nessuno?»

«Certamente intendeva lasciarli a te.»

Ged non disse niente.

«Sei stato il suo apprendista, e il suo orgoglio, e inoltre eri suo amico», gli ricordò Tenar. «Non l’ha mai detto espressamente, ma è chiaro che vanno a te.»

«Che cosa me ne faccio?»

Lei lo guardò, nella penombra. Dalla finestra giungeva ancora un riflesso di luce. Il tono severo, incomprensibile, iroso di Ged irritò Tenar.

«Tu, l’Arcimago, lo chiedi a me? Perché mi tratti come se fossi più sciocca di quel che sono, Ged?»

A quel punto, lui si alzò. Con voce tremante, disse: «Ma tu… non capisci che è tutto finito?»

Lei lo fissò, cercando di leggere l’espressione del suo viso, ma non riuscì a distinguerla.

«Non ho più Poteri. Li ho consumati… tutti quelli che avevo. Per chiudere… Per fare… Tutto è finito.»

Tenar cercò di non prestare fede a quelle parole, ma era impossibile.

«Come versare dell’acqua», proseguì Ged. «Come versare nella sabbia un bicchiere d’acqua. Nel deserto. Sono stato costretto a farlo. Ma adesso non ho più niente da bere. E che differenza può fare, un bicchier d’acqua in più o in meno, nel deserto? Il deserto è forse sparito? Ah! Ascolta… Me lo sussurrava sempre, da dietro quella porta: ascolta! Ascolta! E io mi sono recato in quel deserto quando ero giovane. E laggiù l’ho incontrata, sono diventato lei, ho sposato la mia morte. Mi ha dato la vita. L’acqua della vita. Ero un ruscello, una sorgente, che continuava a scorrere, a dare. Ma laggiù non scorrono ruscelli. Alla fine, tutto quel che mi rimaneva era un bicchiere di quell’acqua, e l’ho dovuta versare nella sabbia, sul letto del fiume prosciugato, sulle rocce avvolte dalle Tenebre. Perciò è finita.»

Tenar aveva imparato abbastanza, da Ogion e da Ged, per capire di quale terra parlasse, e che quelle immagini non servivano a mascherare la verità, ma erano la verità che lo stesso Ged aveva conosciuto. Sapeva anche di dover negare le parole di Ged, anche se erano vere. «Devi avere ancora pazienza, Ged», gli disse. «Ritornare dal regno della morte deve essere un lungo viaggio… anche sulle spalle di un drago. Ti occorrono tempo e tranquillità, riposo e silenzio. Sei stato male, ma in futuro guarirai.»

Per qualche tempo, Ged non disse niente, e Tenar cominciò a pensare di avere detto la cosa più giusta, di avergli dato un po’ di conforto. Ma alla fine Ged disse:

«Come la bambina?»

Fu come una di quelle lame talmente affilate che non le senti neppure, quando ti trafiggono.

«Non capisco», continuò Ged, con lo stesso tono di voce basso e asciutto, «perché l’hai presa con te, pur sapendo che non può guarire. Sapendo come dev’essere la sua vita. Suppongo che faccia parte del tempo in cui siamo vissuti finora: un tempo buio, un’epoca di rovina, un tempo in cui tutto doveva finire. L’hai presa, suppongo, per lo stesso motivo per cui io sono andato ad affrontare il mio nemico, perché non potevi fare altro. E così dobbiamo entrare nella nuova epoca con le spoglie della nostra vittoria sul male. Tu con la tua bambina bruciata, e io senza quel che avevo.»

La disperazione parla così, pensò Tenar. In tono pacato, senza alzare la voce.

Si voltò verso la porta, cercando con lo sguardo il bastone del mago, ma l’angolo dietro il battente era troppo buio. Ormai era scesa l’oscurità, dentro e fuori. Dalla porta aperta si scorgeva un paio di stelle, alte e pallide. Tenar le guardò e si chiese che stelle fossero. Si alzò e raggiunse la porta, cercando a tastoni il bordo del tavolo. Si era già levata la foschia della notte, e non si vedevano molte stelle. Una di quelle che aveva visto era la stella bianca dell’estate che si chiamava, nella lingua di Atuan, Tehanu. Non riuscì a riconoscere l’altra. Non sapeva come si chiamasse Tehanu in hardico, e neppure il suo nome vero, quello usato dai draghi. Sapeva solo come l’avrebbe chiamata sua madre: Tehanu. Tenar.

«Ged», chiese dalla soglia, senza girarsi, «con chi vivevi, da bambino?»

Anche Ged si alzò e si fermò sulla soglia per guardare l’orizzonte velato dalla foschia, le stelle, la mole scura della montagna incombente sopra di loro.

«Con nessuno in particolare», rispose. «Mia madre è morta poco dopo la mia nascita. Avevo dei fratelli più grandi,_ma non li ricordo. Poi c’era mio padre, il fabbro. E la sorella di mia madre, che era la strega di Dieci Ontani.»

«Come zia Muschio?» chiese Tenar.

«Più giovane. Aveva dei Poteri.»

«Come si chiamava?»

Ged non rispose.

«Non ricordo», disse infine, lentamente.

Proseguì, dopo qualche istante: «Mi ha insegnato i nomi: falcone, falco pellegrino, aquila, falco pescatore, astore, sparviero…»

«E come chiamate quella stella? Quella bianca, alta.»

«Il Cuore del Cigno», rispose Ged, guardando in alto. «Ma a Dieci Ontani la chiamano la Freccia.»

Non disse il suo nome nella Lingua della Creazione, né i nomi veri dei rapaci che la strega gli aveva insegnato.

«Quel che ho detto prima», si scusò Ged, «era sbagliato. Non dovrei parlare. Perdonami.»

«Se non vuoi parlare, non posso fare altro che andarmene», disse Tenar. Si voltò verso di lui. «Perché pensi solo a te, sempre a te? Va’ fuori per qualche minuto», aggiunse con irritazione. «Devo cambiarmi.»

Sorpreso, Ged uscì, mormorando qualche parola di scusa. Tenar si recò in fondo alla stanza, si spogliò e s’infilò sotto le coperte, nascondendo la faccia contro il collo morbido e tiepido di Therru.

«Sapendo come dev’essere la sua vita…»

La collera di Tenar, la stupida negazione di quel che Ged le aveva detto, nasceva dalla delusione. Anche se Lodola aveva detto decine di volte che non si poteva fare niente, continuava a sperare che Tenar potesse guarire le ustioni della bambina; e anche se aveva sempre affermato che neppure Ogion sarebbe riuscito a farlo, Tenar sperava che Ged fosse in grado di guarirla: la sua mano passava sulle cicatrici e la pelle ridiventava integra e sana, l’occhio morto riprendeva a vivere, la mano rattrappita riprendeva a muoversi, la vita distrutta ritornava intatta…


Перейти на страницу:
Изменить размер шрифта: