«Puoi fare qualcosa?» aveva chiesto Lodola, piano.

Goha aveva continuato a fissare la bambina ustionata. Non aveva mosso le mani, ma aveva scosso la testa.

«Non hai imparato l’arte della guarigione, sulle montagne?» Lodola lo aveva detto spinta dal dolore e dalla collera, cercando uno sfogo.

«Neppure Ogion riuscirebbe a curarla», aveva risposto la vedova.

Lodola aveva girato la faccia dall’altra parte, si era morso il labbro e aveva pianto. Goha l’aveva abbracciata e le aveva passato la mano sulla testa. Per qualche minuto, le due donne si erano confortate l’un l’altra.

Poi, dalla cucina, era giunta la strega Edera, che aveva aggrottato la fronte nel vedere Goha. Anche se la vedova non faceva incantesimi e fatture, si diceva che al suo arrivo a Gont era stata accolta al villaggio di Re Albi come pupilla del mago, e che conosceva l’Arcimago di Roke e che senza dubbio possedeva poteri arcani, di terre lontane. Gelosa delle proprie prerogative, la strega si era recata accanto al letto e si era data da fare con un piattino su cui aveva versato una montagnola di polvere: le aveva dato fuoco — subito si era levata una nuvoletta di fumo puzzolente — e aveva preso a ripetere una formuletta curativa. Il fumo acre delle erbe magiche aveva fatto tossire la bambina ustionata, che si era quasi levata a sedere, tremante. Aveva preso a respirare ad ansimi, rapidi e brevi. Con l’unico occhio che le era rimasto, sembrava proprio che fissasse Goha.

La vedova si era avvicinata a lei e le aveva preso la mano sinistra. Parlando nella propria lingua, aveva detto: «Io le ho servite e le ho lasciate. Non permetterò loro di averti».

La bambina aveva continuato a fissare lei o il vuoto, e a tentare di respirare, a tentare ancora di respirare, a tentare ancora…

IL NIDO DEL FALCO

Passò più di un anno, e in una delle giornate calde e lunghe che vengono dopo la Grande Danza, un messaggero giunse nella Valle di Mezzo dalla strada del nord, e chiese della vedova Goha. La gente del villaggio gli spiegò come raggiungere la sua abitazione, e l’uomo arrivò alla Fattoria delle Querce nelle ultime ore del pomeriggio. Era un giovane dalla faccia affilata e dagli occhi astuti. Guardò prima Goha, poi le pecore che passavano accanto a lei per rientrare nell’ovile, e disse: «Begli agnellini. Il mago di Re Albi mi ha mandato a chiamarvi».

«Vi ha mandato?» chiese Goha, incredula e divertita. Ogion, quando la voleva, aveva messaggeri più rapidi e sottili: il richiamo di un’aquila, o semplicemente la sua voce che pronunciava piano il suo nome: Puoi venire?

L’uomo annuì. «È malato», disse. E aggiunse: «Intendete vendere qualche agnellina?»

«Potrei farlo. Parlatene al mio pastore. Laggiù, vicino al recinto. Cenate qui? Potete pernottare a casa mia, se preferite, ma io voglio partire subito.»

«Questa notte stessa?»

Goha gli rivolse un’occhiata leggermente sprezzante, e si rivolse a lui con severità: «Non ho intenzione di perdere tempo», disse. Parlò per qualche istante col vecchio pastore, Rivochiaro, e poi si diresse verso la casa che sorgeva a ridosso del bosco di querce sulla collina. Il messaggero la segui.

Nella cucina dal pavimento di pietra, una bambina — l’uomo la guardò per un attimo e distolse subito gli occhi — gli servì latte, pane, formaggio e porri, poi si allontanò senza parlare. Quando ricomparve, era insieme alla vedova: tutt’e due erano già pronte per il viaggio con i loro sacchetti di cuoio. Il messaggero uscì con loro, e la vedova sbarrò la porta. Partirono tutti insieme, lui per i suoi affari, perché il messaggio da parte di Ogion era solo un favore che l’uomo aveva aggiunto alla sua missione principale, consistente nell’acquistare un montone per il Signore di Re Albi; e la donna e la bambina ustionata lo salutarono al bivio che portava al villaggio, poi s’incamminarono lungo la strada da cui l’uomo era venuto, che si dirigeva prima a nord e poi a ovest, ai piedi del Monte di Gont.

Continuarono a camminare finché il lungo crepuscolo estivo non cominciò a oscurarsi. Allora lasciarono la stradina e si accamparono in una piccola valle, accanto a un ruscello dalle acque rapide e silenziose, su cui si specchiavano il pallido cielo notturno e le macchie di salici. Golia preparò un giaciglio di erba secca e di foglie, nascosto fra gli alberi come una tana di lepre, e vi fece accomodare la bambina, dopo averla avvolta in una coperta. «In questo momento», le disse, «tu sei un bozzolo. Domattina sarai una farfalla e uscirai all’aperto.» Non accese il fuoco; si limitò ad avvolgersi nel proprio mantello, distesa accanto alla bambina. Guardò le stelle illuminarsi a una a una e ascoltò quel che il ruscello le raccontava silenziosamente finché non s’addormentò.

Quando si svegliarono, nel freddo che precede l’alba, Goha accese un piccolo fuoco e fece bollire una pentola d’acqua per preparare un semolino d’avena per lei e per la bambina. La piccola farfalla ustionata uscì con un brivido dal bozzolo, e Goha fece raffreddare la pentola sull’erba umida di rugiada, perché la bambina potesse prenderla in mano e bere da essa. Quando ripartirono, a oriente, al di sopra dell’alto e scuro dorso della montagna, il cielo si stava ormai illuminando.

Camminarono per tutto il giorno, con l’andatura di una bambina che si stanca facilmente. In cuor suo, la donna era ansiosa di fare in fretta, ma camminò piano. Non era in grado di portare in braccio la bambina per molto tempo, e perciò, per renderle più facile il cammino, prese a raccontarle una delle sue storie.

«Stiamo andando a trovare un vecchio che si chiama Ogion», le disse, mentre percorrevano la stradina tutta curve che attraversava la foresta e saliva sul monte. «È un sapiente, e anche un mago. Sai che cos’è un mago, Therru?»

Se la bambina aveva un nome, non lo conosceva o non voleva rivelarlo. Goha la chiamava Therru.

La bambina scosse la testa.

«Be’, neanch’io», rispose la donna. «Ma so che cosa possono fare. Quando ero giovane… più grande di te, ma ancora giovane… Ogion è stato mio padre, come io sono adesso tua madre. Si prendeva cura di me e cercava di insegnarmi quel che dovevo sapere. Rimaneva con me anche se avrebbe preferito andare in giro da solo. Amava camminare lungo queste stradine da cui passiamo adesso, e nelle foreste e nei luoghi disabitati. Si recava a visitare ogni punto di queste montagne, per vedere, per ascoltare. Ascoltava sempre e non parlava mai e perciò lo chiamavano il Taciturno. Ma con me parlava. Mi raccontava storie. Non solo le grandi storie che tutti conoscono, degli eroi e dei re e di cose accadute molto tempo fa e in posti lontani, ma le storie che solo lui conosceva.» Continuò a camminare in silenzio per qualche tempo, prima di riprendere: «Adesso ti racconterò una di quelle storie».

E raccontò: «Una delle capacità dei maghi è quella di trasformarsi in qualcosa d’altro… prendere un’altra forma. Metamorfosi, è chiamata. Un normale stregone può assumere l’aspetto di un’altra persona, o di un animale, in modo che gli altri non sappiano riconoscerlo: come se si fosse infilato una maschera. Ma i grandi maghi possono fare molto di più. Possono diventare la maschera stessa, e trasformarsi veramente in un’altra creatura. Perciò un mago che, per esempio, deve attraversare il mare ma non ha la barca, può trasformarsi in gabbiano e volare. Ma deve fare attenzione. Se rimane per troppo tempo nella forma di uccello, comincia a pensare come un uccello e dimentica il modo di pensare dell’uomo, e può volare via, rimanere un gabbiano e non ritornare mai più uomo. Così si racconta che una volta c’era un grande mago che amava trasformarsi in orso. Lo fece troppo spesso, e finì per diventare veramente un orso, e uccise il proprio figlioletto: dovettero dargli la caccia e ammazzarlo. Ma Ogion amava anche scherzare sopra questo Potere della metamorfosi. Una volta, quando i topi gli entrarono nella dispensa e gli mangiarono tutto il formaggio, lui ne catturò uno con un piccolo incantesimo-trappola; poi prese il topo per la collottola e lo fissò negli occhi e gli disse: ‘Ti avevo avvertito di non giocare a fare il topo!’ E io, per un po’, credetti che avesse parlato sul serio…


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