Lou prese posto nel sedile posteriore e durante la strada non disse nulla. Un bel contrasto con i chiacchieroni ai quali lui era abituato, pensò Tom. A un tratto però Lou gli chiese: — Ti sei mai domandato quale sia la velocità del buio?
— Eh? — Tom stava pensando alla sua ultima pubblicazione, che forse aveva bisogno di qualche revisione.
— Vedi, noi abbiamo dei valori per la velocità della luce — spiegò Lou. — Ma la velocità del buio…
— Il buio non ha velocità — disse Lucia. — È solo un'assenza di luce, non esiste di per sé.
— Io credo… io credo che forse esista — azzardò Lou.
Tom guardò Lou nello specchietto retrovisore: sembrava un poco triste. — Hai idea di quanto potrebbe esser veloce? — Lucia gli lanciò un'occhiata: a lei non piaceva che Tom seguisse Lou nei meandri di certi suoi ragionamenti, ma lui non vedeva che male ci fosse.
— Siccome si trova dove la luce non è ancora arrivata, dovrebbe essere più veloce… visto che è sempre già lì quando si fa luce.
— Ma potrebbe anche non muoversi affatto, visto che è già lì — disse Tom.
— Tu credi davvero che il buio sia qualcosa di reale? — domandò Lucia girandosi a metà.
— "Il buio è un fenomeno naturale caratterizzato dall'assenza di luce" — citò Lou. — Lo diceva il mio testo di scienze quando andavo a scuola: ma come definizione in realtà non spiega molto. L'insegnante diceva che il cielo notturno sembra buio tra le stelle, ma che invece c'è luce… le stelle diffondono luce in tutte le direzioni, quindi la luce c'è o noi non potremmo vederle.
— Se per metafora noi assumessimo che la conoscenza è la luce e l'ignoranza è il buio, allora potrebbe sembrare che il buio, cioè l'ignoranza, abbia davvero un'esistenza reale, non sia solo una mancanza di conoscenza. Si potrebbe definirla una specie di volontà d'ignoranza. E questo aiuterebbe a capire certi politici.
— Se ricorriamo alle metafore — disse Lucia — potresti anche dire che una balena simboleggia il deserto o che qualunque cosa ne significa un'altra.
— Non ti senti bene? — chiese Tom.
— Sono irritata, e tu sai perché — rispose lei.
— Chiedo scusa — disse Lou da dietro.
— Perché? — domandò Lucia.
— Non avrei dovuto parlare della velocità del buio. Ti ho fatta irritare.
— Non sei stato tu a irritarmi, ma Tom.
La macchina continuò la sua corsa in un silenzio imbarazzato. Quando raggiunsero il parco dove si doveva tenere il torneo, Tom si affrettò ad accompagnare Lou alla convalida dell'iscrizione e poi al controllo dell'equipaggiamento. Lucia si allontanò per andare a parlare con certi suoi amici, e Tom sperò che le facessero passare il cattivo umore che deprimeva sia lui che Lou.
Dopo mezz'ora, però, Tom si rilassò in quell'atmosfera di cameratismo generale. Conosceva quasi tutti, lì, le conversazioni che si svolgevano intorno a lui vertevano su argomenti familiari. Lou sembrava abbastanza a suo agio e salutava senza imbarazzo le persone alle quali lo presentava. Tom gli fece fare qualche breve esercizio di riscaldamento e quasi subito arrivò il momento di andare alle pedane per il primo incontro.
— Adesso ricorda: il miglior modo di accumulare punti è attaccare subito — ricapitolò Tom. — Il tuo avversario non conosce il tuo stile di combattimento e tu non conosci il suo, ma tu sei rapido. Penetra nella sua guardia e toccalo, o almeno provaci. Come minimo, questo lo scombussolerà…
— Salve, gente — disse la voce di Don alle loro spalle. — Sono appena arrivato… lui non ha combattuto ancora?
Ci mancava solo Don per disturbare la concentrazione di Lou. — No, sta per cominciare adesso. Aspetta un momento e sono da te. — Tom tornò a rivolgersi a Lou. — Andrai benone, Lou. Ricorda anche questo: devi segnare tre punti su cinque, perciò non ti preoccupare se il tuo avversario ti toccherà. Potrai ancora vincere. E ascolta l'ar… — Ma era venuto il momento, e Lou si volse per entrare sulla pedana circondata da una corda. Di colpo Tom si sentì gelare dalla paura. E se aveva spinto Lou in un'impresa superiore alle sue capacità?
Lou appariva goffo come durante le prime lezioni. La sua posa tecnicamente era corretta, ma sembrava rigida e artificiale: non l'atteggiamento disinvolto di chi è pronto a battersi.
— Te lo avevo detto — commentò Don a voce abbastanza bassa. — È troppo difficile per lui… farà…
— Sta' zitto — ordinò Tom. — Può sentirti.
Sono pronto anche prima che arrivi Tom. Ho indossato il costume che Lucia ha messo insieme per me, ma mi sento strano a portarlo in pubblico: non sembra un vestito normale. Le calze alte e aderenti mi arrivano al ginocchio e le larghe maniche della camicia si gonfiano alla brezza. Anche se i colori sono quieti, marrone, avana e verde scuro, non credo che il signor Aldrin o il signor Crenshaw mi approverebbero se mi vedessero.
Tom è puntuale come sempre e quindi non devo aspettare molto. Il viaggio fino al parco mi ha turbato, perché Tom e Lucia hanno di nuovo bisticciato. Anche se Tom dice che non c'è da preoccuparsene, io me ne preoccupo e ho l'impressione che il loro disaccordo sia in qualche modo colpa mia; però non so come o perché.
Arrivati al parco, Tom parcheggia sull'erba. Ci sono parecchie altre macchine e io ne conto i colori e i tipi. La maggior parte della gente porta costumi, e tutti sono strani come il mio o peggio. Un uomo porta un grande cappello piatto tutto coperto di piume. Vorrei contare i colori, ma i costumi ne hanno troppi. Mi piacciono i mantelli che sono di un colore fuori e di un altro all'interno. Quando si muovono danno l'impressione di una girandola.
Subito andiamo a un tavolo dove una donna con un abito lungo registra i nostri nomi e ci dà piccoli dischi di metallo con un buco nel mezzo. Lucia tira fuori di tasca un nastrino verde e me lo dà. — Infilalo in questo — dice — e appenditelo al collo. — Poi Tom mi conduce a un altro tavolo dove un uomo con calzoncini rigonfi controlla il mio nome su un'altra lista.
— Il tuo turno è alle dieci e un quarto — dice. — Il cartellone è lì. — Indica una tenda a righe gialle e verdi.
Il cartellone è composto di grossi pezzi di cartone tenuti insieme da nastro adesivo, con righe per scriverci i nomi, solo che per la maggior parte non c'è scritto niente. Solo le righe di sinistra sono tutte riempite e lì trovo il mio nome e quello del mio primo avversario.
— Adesso sono le nove e mezza — dice Tom. — Diamo un'occhiata in giro e poi troviamo un posto dove fare qualche esercizio.
Allorché arriva il mio turno ed entro nella pedana, ho il cuore che mi batte e le mani che tremano. Non so cosa sto facendo lì. Non dovrei esserci, non ne conosco lo schema. Intanto il mio avversario attacca e io paro. Non è una buona parata, sono stato troppo lento, ma lui non mi ha toccato. Tiro un respiro profondo e mi concentro sui movimenti dell'altro, sui suoi schemi.
Lo tocco un paio di volte, però lui non sembra accorgersene. Ne sono sorpreso, ma Tom mi ha detto che certe volte una persona non si accorge di un tocco, forse perché è troppo eccitata, specialmente se è al suo primo incontro. Perciò, mi ha detto Tom, è importante che io colpisca con fermezza. Ci riprovo, e siccome questa volta il mio avversario mi si stava avventando addosso, lo colpisco con troppa forza. Lui ci rimane male e parla con l'arbitro, ma questi dice che è colpa sua perché il suo attacco era troppo precipitoso.
Alla fine succede che ho vinto l'incontro. Sono senza fiato, e non solo per il combattimento. Mi sento strano, leggero, ma non della leggerezza che provo quando sono vicino a Marjory. È perché mi sono battuto con una persona che non conoscevo o perché ho vinto?
Tom mi stringe la mano. Ha la faccia lucida e la voce entusiasta. — Ce l'hai fatta, Lou. Sei stato bravissimo…
— Sì, sei stato bravo — lo interrompe Don. — E sei anche stato piuttosto fortunato. Devi stare attento alle parate di terza, Lou. Avevo già notato che non le usi abbastanza di frequente, e quando lo fai è come se telegrafassi le tue intenzioni in anticipo…