Arriva Marjory.
— Stavo raccontando a Marjory come sei stato bravo al torneo — spiega Lucia dietro di lei. Marjory mi sorride.
— Non ho vinto, però — dico. — E ho commesso degli errori.
— Hai vinto due incontri e la medaglia dei principianti — ribatte Lucia. — Non hai commesso poi tanti errori.
— Simon è rimasto sbalordito — dice Tom. Adesso si è seduto e sta ripassando la lama della sua spada con la carta vetrata per eliminare eventuali intaccature. Io tasto la mia, ma non ci trovo nulla. — Parlo dell'arbitro, sai: ci conosciamo da anni. Lo ha colpito specialmente il modo in cui ti sei comportato quando quel tizio non ha riconosciuto di essere stato colpito.
— Ma tu mi avevi detto di comportarmi così — dico.
— Be', sai, non succede spesso che i miei allievi seguano tutti i miei consigli — spiega Tom. — E dimmi, adesso che è passato qualche giorno, ti è piaciuto il torneo?
— Sì, in alcune parti mi è piaciuto molto. — Era un piacere, in effetti, ma anche una sfida: solo che non so descrivere questo miscuglio di sentimenti. — Certe volte provo piacere a fare cose nuove — dico.
Qualcuno sta aprendo la porticina: è Don. Di colpo sento una certa tensione in cortile.
— Ciao — saluta lui seccamente.
Io gli sorrido, ma lui non ricambia.
— Ciao, Don — dice Tom.
Lucia tace e Marjory lo saluta con un cenno.
— Prendo solo le mie cose — spiega lui, ed entra in casa.
Lucia lancia un'occhiata a Tom che si stringe nelle spalle. Marjory mi si avvicina.
— Vuoi fare un incontro? — chiede. — Stasera posso trattenermi poco. Ho da lavorare.
— Certo — dico io. Mi sento di nuovo leggero.
Adesso che mi sono battuto al torneo, mi sento molto rilassato a battermi qui. Non penso a Don, penso solo a Marjory. Di nuovo mi pervade la sensazione che toccare la sua lama somigli molto a toccare lei: che attraverso l'acciaio io possa sentire i suoi movimenti, perfino i suoi stati d'animo. Vorrei che l'incontro si prolungasse, perciò rallento un poco, non cerco di mettere a segno colpi, in modo da continuare così il più possibile.
Finalmente lei fa un passo indietro; ha il respiro affannoso. — È stato divertente, Lou, ma non ce la faccio più. Devo riprender fiato.
— Grazie — dico.
Ci sediamo l'uno a fianco dell'altro: siamo affannati tutti e due. Io accordo il ritmo del mio respiro al suo e mi sento più leggero che mai.
Don esce da casa portando le sue armi in una mano e la maschera nell'altra. Mi lancia un'occhiataccia e se ne va con passo rigido e affrettato. Tom esce di casa anche lui e allarga le braccia stringendosi nelle spalle.
— Ho cercato di farlo ragionare — dice a Lucia. — Lui si ostina a credere che io lo abbia insultato a bella posta, al torneo. Inoltre si è piazzato al ventesimo posto, parecchio dopo Lou. Anche questo è avvenuto per colpa mia, così adesso andrà a prendere lezioni da Gunther.
— Oh, non durerà — commenta Lucia allungando le gambe. — Don non sopporterà la disciplina.
— Si è offeso per causa mia? — domando.
— Si è offeso perché il mondo non accetta di adeguarsi supinamente ai suoi capricci — dice Tom. — Tra un paio di settimane Don sarà di nuovo qui, vedrai, facendo finta che non sia avvenuto niente.
— E tu lo riprenderai? — chiede Lucia con una certa asprezza.
Di nuovo Tom si stringe nelle spalle. — Se si comporterà bene, sì. Capita che le persone crescano, Lucia.
— Alcune di loro certo crescono, ma storte — ribatte lei.
Arrivano Max, Susan, Cindy e gli altri, tutti insieme, e tutti parlano con me. Non li ho visti al torneo, ma loro mi hanno visto. Mi sento imbarazzato per non averli notati, ma Max mi spiega la situazione.
— Non volevamo disturbarti, avresti potuto perdere la concentrazione. In occasioni del genere uno non vuole avere intorno più di una persona, massimo due — dice. Questo può essere vero solo se anche altra gente trova difficile concentrarsi. Io non sapevo che loro la pensavano così: credevo che volessero sempre intorno a sé un mucchio di gente.
Se le cose che mi hanno detto sul conto mio non sono tutte vere, forse anche le cose che mi hanno detto sulle persone normali non sono tutte attendibili.
Faccio un incontro con Max e poi uno con Cindy e vado a sedere accanto a Marjory finché lei dice che deve andare. Le porto lo zaino fino alla macchina. Mi piacerebbe passare più tempo con lei, ma non so come poterlo fare. Se incontrassi qualcuna come lei… qualcuna che mi piacesse… a un torneo, e lei non sapesse che sono autistico, sarebbe più facile chiedere a quella persona di venire a cena con me? Cosa risponderebbe quella persona? Cosa risponderebbe Marjory se glielo chiedessi? Rimango ritto accanto alla macchina dopo che lei si è seduta alla guida e vorrei aver già detto quelle parole ed essere in attesa della sua risposta. La voce rabbiosa di Emmy mi risuona nelle orecchie. Io non credo a ciò che ha detto, non credo che Marjory mi veda solo come un possibile soggetto di ricerca. Però non sono nemmeno tanto sicuro del contrario da poterle chiedere di uscire con me.
Marjory mi guarda e di colpo mi sento pietrificare dalla timidezza. — Buona sera — dico.
— Arrivederci — dice lei. — Alla prossima settimana. — Accende il motore e io indietreggio.
Torno in cortile e siedo accanto a Lucia. — Se una persona chiede a un'altra di andare a cena con lei — domando — e la persona alla quale lo chiede non vuole andarci, la persona che chiede ha modo di accorgersene prima di chiedere?
Lucia non risponde per un periodo di circa quaranta secondi, poi dice: — Se una persona si comporta in modo amichevole con un'altra, potrebbe esser contenta di ricevere una simile richiesta pur senza desiderare di accettarla. Oppure quella sera potrebbe avere qualche altra cosa da fare. — Fa una pausa. — Hai mai chiesto a qualcuno di cenare con te, Lou?
— No — dico. — L'ho chiesto solo alle persone con cui lavoro, quelli che sono come me. Questo è diverso.
— Vero — annuisce lei. — Stai pensando di chiedere a qualcuno di uscire con te?
Mi si serra la gola e non posso parlare, ma Lucia non insiste: si limita ad aspettare.
— Stavo pensando di chiederlo a Marjory — dico finalmente a bassa voce. — Ma non vorrei disturbarla.
— Non credo che la disturberesti, Lou — risponde Lucia. — Non so se verrebbe a cena con te, però non credo proprio che sarebbe seccata dalla tua richiesta.
A casa quella sera, e quando vado a letto, penso a Marjory che siede a tavola davanti a me. Ho visto scene come questa alla TV. Ma non sono ancora pronto a chiedere.
Giovedì mattina esco di casa e guardo la mia macchina. Ha un aspetto strano: tutt'e quattro le gomme sono appiattite a terra. Non capisco. Le ho comprate solo pochi mesi fa, e quando faccio benzina controllo sempre la pressione. Non capisco come abbiano fatto a sgonfiarsi. Ho solo una ruota di scorta, e benché tenga in macchina una pompa a pedale so che non posso gonfiare tre gomme abbastanza in fretta. Farò tardi al lavoro e il signor Crenshaw si arrabbierà. Sento già il sudore gocciolarmi lungo le costole.
— Cosa succede, amico? — È Danny Bryce, il poliziotto che abita nel mio palazzo.
— Ho le gomme sgonfie — dico. — Non so perché. Le ho controllate l'altro giorno.
Si avvicina. È in uniforme. Odora di menta e limone e la sua uniforme profuma di pulito. Ha le scarpe lucidissime. Sulla camicia ha una targhetta color argento su cui è scritto il suo nome DANNY BRYCE in nero.
— Qualcuno le ha squarciate — spiega. Ha l'aria seria ma non è in collera.
— Squarciate? — Ho letto di simili cose, ma a me non era mai accaduto. — Perché?
— Malignità — risponde lui, chinandosi a guardare. — Sì. Decisamente è un atto di vandalismo.
Dà un'occhiata anche alle altre macchine, ma nessuna di loro ha le gomme sgonfie. — No, l'unica danneggiata è la tua. Qualcuno ce l'ha con te?