Ma nell'ultima pagina di quel capitolo trovo una frase talmente straordinaria che non posso far altro che fermarmi a contemplarla: "Essenzialmente, e a parte le funzioni fisiologiche, il cervello umano esiste per analizzare e generare schemi".

Mi si mozza il respiro, mi sento prima gelare e poi ardere. È questo che io faccio. Se davvero questa è la funzione essenziale del cervello umano, allora io non sono un handicappato ma una persona normale.

Non è possibile. Tutto ciò che conosco mi dice che io sono il diverso, l'handicappato. Rileggo la frase più e più volte, cercando di farla combaciare con quanto so.

Infine continuo la lettura per il resto del paragrafo. "L'analisi degli schemi e la loro creazione può essere difettosa, come in alcune malattie mentali, dando come risultato analisi errate o schemi generati sulla base di 'dati' non corretti; però anche nelle più severe deficienze cognitive queste due attività sono caratteristiche del cervello umano… e anche di cervelli molto meno sofisticati di quello umano. I lettori interessati a tali funzioni negli esseri non umani dovrebbero consultare i seguenti riferimenti."

Quindi forse io sono normale e handicappato… normale nel percepire e nel generare schemi, ma i miei schemi sono errati?

Continuo a leggere, e quando finalmente smetto, sentendomi nervoso ed esausto, sono quasi le tre del mattino. Sono arrivato al capitolo 6: Trasformazione matematica del processo visivo.

Sto già cambiando. Pochi mesi fa non sapevo di amare Marjory. Non sapevo di poter tirare di scherma in un torneo con estranei. Non sapevo di essere in grado di imparare la biologia e la chimica come invece ho fatto. Non sapevo di poter cambiare fino a questo punto.

Una delle persone del centro di riabilitazione dove passavo tante ore da bambino diceva spesso che gli handicap sono il modo con cui Dio dà agli uomini la possibilità di dimostrare la propria fede. Io non concepisco Dio in questo modo. Non credo che Dio faccia succedere brutte cose allo scopo d'incrementare la crescita spirituale delle persone. Sono i cattivi genitori che fanno questo, diceva mia madre. I cattivi genitori rendono le cose difficili e penose per i loro figli e poi dicono che lo fanno per aiutarli a crescere. Crescere e vivere sono cose già tanto dure di per se stesse, quindi i bambini non hanno bisogno che gliele rendano peggiori. Io credo che questo sia vero anche per i bambini normali. Ho visto bambini piccoli imparare a camminare: faticano, e cadono molte volte. Dai loro visi si vede che la cosa non è facile. Sarebbe stupido caricarli di mattoni per render loro la cosa ancora più ardua. E se questo è vero per l'imparare a camminare, allora io credo sia vero anche per altre cose che interessano il crescere e l'imparare.

Si suppone che Dio sia un buon genitore, il Padre. Perciò io non credo che voglia renderci le prove più dure di quanto già sono. Non credo che io sia autistico perché i miei genitori avevano bisogno di una prova o perché ne avevo bisogno io. Credo che sia come se io fossi un bambino e un sasso mi cadesse sopra e mi rompesse una gamba. Ciò che ha causato questo è stato un accidente. Dio non lo ha prevenuto, ma nemmeno lo ha cagionato.

Io credo che il mio autismo sia stato un accidente, ma ciò che ne faccio esprime ciò che sono. Così diceva mia madre.

Questo è ciò che credo la maggior parte del tempo. Ma a volte non ne sono tanto sicuro.

È una mattina grigia, con nuvole basse. La luce lenta non ha ancora scacciato del tutto il buio. Preparo il sacchetto del pranzo, prendo Cego e Clinton e scendo. Posso leggere durante l'intervallo.

Le mie gomme sono a posto, il parabrezza nuovo è intatto. Forse la persona che non mi è amica si è stancata di danneggiarmi la macchina. Apro lo sportello, metto il sacchetto e il libro sul sedile del passeggero ed entro. La musica del mattino che preferisco per guidare sta già suonando nella mia mente.

Quando giro la chiave dell'accensione non succede niente. L'auto non parte. Non c'è alcun suono tranne il leggero clic della chiave che gira. So cosa significa questo: la batteria è morta.

La musica nella mia testa tace. La mia batteria non era morta ieri sera. L'indicatore del livello di carica era normale.

Esco e vado ad aprire il cofano. Appena lo sollevo qualcosa mi balza contro. Barcollo e quasi cado sul marciapiedi.

Si tratta di un giocattolo da bambini, un diavoletto a molla, che sta al posto in cui dovrebbe stare la batteria. La batteria è sparita.

Farò tardi al lavoro e il signor Crenshaw si arrabbierà. Richiudo il cofano sul motore senza toccare il giocattolo. Non mi piacevano i diavoletti a molla quando ero bambino. Devo chiamare la polizia e l'assicurazione, ripercorrere tutta la noiosa trafila. Guardo l'orologio. Se mi affretto ad andare alla stazione della metropolitana posso prendere un treno per il campus, così non farò tardi.

Prendo il sacchetto del pranzo e il libro, richiudo la macchina e mi avvio in fretta verso la stazione. Ho nel portafogli le carte dei due poliziotti che si sono occupati del mio caso: li chiamerò dal campus.

Sul treno affollato la gente tiene gli occhi fissi su un punto indeterminato e non guarda mai negli occhi gli altri viaggiatori. Non è che siano tutti autistici: sanno in qualche modo che non è appropriato avere contatti di sguardi sul treno. Alcuni leggono. Anch'io apro il libro e leggo cosa dicono Cego e Clinton sul modo in cui il cervello elabora i segnali visivi.

Mi affascinano gli scambi d'informazioni che ciclicamente si svolgono fra gli strati dell'elaborazione visiva. Non mi ero mai reso conto che una cosa tanto interessante avvenisse dentro la testa delle persone normali: credevo che si limitassero a guardare le cose e a riconoscerle automaticamente. Pensavo che i miei processi visivi fossero difettosi, invece (se interpreto l'informazione correttamente) sono soltanto lenti.

Arrivato alla fermata del campus oramai so dove andare e ci metto meno tempo a raggiungere il nostro edificio. Sono in anticipo di tre minuti e venti secondi. Il signor Crenshaw è di nuovo nell'atrio, ma non mi rivolge la parola. Si fa da parte. Io dico: — Buon giorno, signor Crenshaw — perché è educato, e lui grugnisce qualcosa che non si capisce bene. Se avesse avuto il mio terapista della dizione parlerebbe enunciando più chiaramente.

Metto il libro sulla scrivania e torno nell'atrio per andare a portare il mio pranzo nella cucinetta. Adesso il signor Crenshaw è sulla porta e guarda il parcheggio. Si volta e mi vede. — Dov'è la tua automobile, Arrendale? — domanda.

— A casa — dico. — Ho preso la metropolitana.

— Dunque tu puoi prendere il mezzo pubblico — commenta, e ha la faccia un po' lucida. — Non hai veramente bisogno di un parcheggio speciale.

— I treni sono molto affollati e rumorosi — spiego. — Qualcuno mi ha rubato la batteria stanotte.

— Una macchina è solo una continua fonte di problemi per qualcuno come te — commenta ancora lui accostandosi. — Gente che non abita in zone sicure, con parcheggi custoditi, davvero non dovrebbe esibire il possesso di automobili.

— Non è mai successo nulla fino a poche settimane fa — rettifico. Non capisco perché desidero discutere con lui. A me discutere non piace.

— Sei stato fortunato. Adesso però sembra proprio che qualcuno ce l'abbia con te, no? Tre episodi di vandalismo. Ma almeno stavolta non sei arrivato in ritardo.

— Sono arrivato in ritardo una volta sola a causa dei vandalismi — dico.

— Non è questo il punto — ribatte. Mi chiedo quale sia il punto, a parte la sua antipatia per me e per i miei compagni. Dà un'occhiata alla porta del mio ufficio. — Sarà meglio che tu ritorni al lavoro — dice. — O meglio, che cominci a lavorare… — Adesso guarda l'orologio dell'atrio. Sono in ritardo di due minuti e diciotto secondi. Senza più rispondere, torno nel mio ufficio e chiudo la porta. Non ho intenzione di rimettermi in pari con i due minuti e diciotto secondi, non è colpa mia se sono in ritardo. Mi sento un poco agitato.


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