Fuori il tempo è nuvoloso e freddo, ma in questo momento non piove. C'è vento, però non quanto ieri. Mi dirigo alla mia macchina ed entro. Non giro la chiave di avviamento, perché ancora non so dove andrò. Prendo la mappa dallo scompartimento del cruscotto e l'apro. Potrei andare al grande parco fuori città a guardare le cascate. Molta gente va a farci camminate in estate, ma credo che di giorno il parco sia aperto anche d'inverno.

Un'ombra cade sul finestrino. È Danny. Abbasso il vetro.

— Stai bene? — mi chiede. — Qualcosa non va?

— Oggi non vado al lavoro — rispondo. — Sto decidendo dove andare.

— Allora è tutto a posto — dice. Sono sorpreso: non sapevo che s'interessasse tanto a me. E se è così, forse vorrà sapere che sto per andarmene.

— Sto per andarmene — annuncio.

Il suo viso cambia espressione. — Ti trasferisci? A causa di quel mascalzone? Ma ormai non può più farti del male, Lou.

È interessante che sia lui che la gerente abbiano subito pensato che volessi andar via a causa di Don.

— No, non mi trasferisco — spiego. — Però starò fuori per diverse settimane. C'è un nuovo trattamento sperimentale e la mia compagnia vuole che lo provi.

Danny sembra preoccupato. — La tua compagnia… ma tu vuoi provarlo? Stanno cercando di costringerti?

— No, è una decisione mia — dico. — Ho deciso io di sottopormici.

— Be'… allora… Spero che tu abbia ricevuto buoni consigli.

— Sì — dico, ma non dico da chi.

— Quindi hai il giorno libero? O te ne vai oggi? Quando ti verrà somministrato quel trattamento?

— Oggi non devo lavorare. Ho sgomberato ieri il mio ufficio. Il trattamento viene somministrato alla clinica del campus dove lavoro, ma in un edificio differente. Comincerà lunedì. Oggi non ho nulla da fare e pensavo di andare a Harper Falls.

— Abbi cura di te, Lou. Spero che ti vada tutto bene. — Danny picchia sul tetto della macchina e si allontana.

Non capisco con chiarezza cosa lui spera che mi vada bene. La gita a Harper Falls o il trattamento? Non so nemmeno perché abbia picchiato sul tetto della macchina. So però che non m'incute più paura, un altro cambiamento che mi è capitato da solo.

Al parco pago il biglietto e mi fermo nel parcheggio. Cartelli indicano i diversi itinerari: ALLE CASCATE, 290,3 METRI. BUTTERCUP MEADOW, 1,7 KM. ITINERARIO JUNIOR 1,3 KM. L'itinerario junior e il sentiero completamente accessibile sono asfaltati, ma il sentiero per le cascate è inghiaiato. M'incammino, e le mie scarpe fanno scricchiolare i sassolini. Non c'è nessuno. Gli unici suoni sono quelli della natura.

Gli alberi ormai hanno perduto quasi tutte le foglie, che giacciono a terra fradice per la pioggia di ieri. Sotto di me posso vedere foglie rosse risplendere perfino in una giornata come questa, su aceri che sopravvivono in questa zona più fresca.

Mi sento rilassato. Agli alberi non importa se sono normale o no. Non importa nemmeno alle rocce e al lichene. Loro non fanno differenza tra un essere umano e un altro, e questo è riposante. Qui non sono obbligato a pensare a me stesso.

Mi fermo per sedermi su una roccia e lascio penzolare le gambe. Se qualcuno dicesse agli ultimi aceri che potevano cambiare e vivere felici in un clima più caldo, loro avrebbero scelto di farlo? E se poi questo avesse significato la perdita di quelle foglie trasparenti che diventano di un colore così stupendo ogni anno?

Tiro un respiro profondo e annuso le foglie bagnate, il muschio sulle rocce, i licheni, le rocce stesse, la terra… Alcuni testi dicono che gli autistici sono troppo sensibili agli odori, ma nessuno si lamenta di questa caratteristica in un gatto o in un cane.

Ascolto i fievoli rumori del bosco che si sentono perfino oggi, con le foglie umide ormai quasi tutte cadute e giacenti silenziose a terra. Alcune, poche, sono ancora sui rami e si agitano al vento. Ali si agitano, e sento il cinguettio di un uccello che non si vede. Alcuni testi dicono che gli autistici sono troppo sensibili ai rumori di fondo, ma nessuno si lamenta di questa caratteristica negli animali.

Tuttavia qui nessuno di quelli che si lamentano è presente. Io ho tutta la giornata per godermi le mie sensazioni eccessive e sregolate, caso mai non dovessi più averle tra una settimana. Spero però che godrò quelle che avrò allora, quali che siano.

Mi chino e tocco con la lingua la pietra, il muschio, i licheni e poi, chinandomi ancora di più, le foglie bagnate alla base della roccia. Poi la corteccia di una quercia (amara, pungente) e quella di un pioppo (dapprima insapore, poi dolciastra).

Scendo il lieve pendio… trovo una felce da toccare con la lingua… ha solo una foglia ancora verde e non ha sapore. E le cortecce di altri alberi, per la maggior parte non li conosco ma posso dire che sono diversi dalle loro configurazioni. Ognuno ha un sapore lievemente differente, indescrivibile, un odore lievemente differente, un differente sentore al tatto nella corteccia, che è più ruvida o più liscia sotto le mie dita. Il rumore della cascata, dapprima un rombo sordo, si dissolve nei molti suoni che lo compongono: il boato della cascata principale che martella le rocce al di sotto, gli echi di quel boato che si trasformano in scrosci, il trillo degli spruzzi e delle cascatelle, il quieto sgocciolare delle perle di umidità che si staccano dalle foglie delle felci bruciate dal gelo.

Guardo l'acqua che cade cercando di distinguerne ogni parte individuale, le masse apparenti che convergono sull'orlo e poi cadono separandosi… Cosa proverebbe una goccia nello scivolare su quel bordo di roccia per cadere nel nulla? L'acqua non ha mente, non può pensare, ma la gente… la gente normale… scrive di fiumi veementi e di onde furiose come se non credesse a questa impassibilità.

Una sbavatura di vento mi porta uno spruzzo sul viso. Alcune gocce hanno sfidato la gravità e si sono innalzate nel vento, ma non per ritornare da dove erano venute.

Sto quasi per pensare alla mia decisione, all'ignoto che mi aspetta, all'impossibilità di tornare indietro, però oggi non voglio pensare. Voglio provare tutte le sensazioni che posso per serbarle nella memoria, se avrò memorie in quel futuro inconoscibile. Mi concentro sull'acqua, cercando di percepirne gli schemi, l'ordine nel caos e il caos nell'ordine.

Lunedì, nove e ventinove. Sono nella clinica, che si trova all'estremità opposta del campus rispetto alla sezione A. Siedo su una poltroncina tra Dale e Bailey.

Le poltroncine sono di plastica grigio chiaro con imbottiture di tweed azzurro, verde e rosa sullo schienale e sul sedile. Dall'altra parte della stanza c'è un'altra fila delle medesime poltroncine. Le pareti sono a strisce in due toni di grigio fino a una certa altezza, e poi sono state rifinite in color avorio. Di fronte a noi ci sono due quadri; uno rappresenta un paesaggio con campi verdi e una collina sullo sfondo, l'altro un mazzo di papaveri in un bricco di rame. All'estremità opposta della stanza c'è una porta. Non so dove conduca, non so se è da essa che dovremo passare.

Il mio stomaco è un grumo di gelo in un grande spazio vuoto. Mi sento la pelle come se qualcuno l'avesse tirata troppo.

Quando cerco d'immaginare il futuro… il resto di questo giorno, domani, la settimana prossima, il resto della mia vita… mi par di guardare nella pupilla del mio occhio e vedo solo il nero rispondere al mio sguardo. È il buio che si trova già lì prima che la luce arrivi, ignoto e inconoscibile prima di quell'arrivo.

La non conoscenza viene prima della conoscenza; il futuro viene prima del presente. Da questo momento passato e futuro sono uguali ma in opposte direzioni; però io sto andando da quella parte e non da questa.

E quando ci arriverò, la velocità della luce e quella del buio saranno uguali.


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