Dalle grandi finestre si vede la pista che scintilla di luci: luci verdi e rosse sulle punte delle ali degli aeroplani, file di luci quadrate e più opache lungo i loro fianchi, a indicare dove sono i finestrini, fari dei piccoli veicoli che tirano i carrelli dei bagagli. Luci ferme e luci ammiccanti.
— Adesso puoi parlare? — chiede Marjory mentre io guardo le luci.
— Sì. — Posso sentire il suo calore… lei mi è molto vicina. Socchiudo gli occhi un momento. — Vedi, talvolta rimango confuso. — Indico un aereo che si sta dirigendo verso una porta. — È quello il nostro?
— Credo di sì. — Fa un passo di lato e adesso mi sta davanti. — Stai bene?
— Sì. Sai… certe volte mi succede così. — Mi imbarazza il fatto che mi sia accaduto stasera, la prima volta che sono solo con Marjory. Ricordo quando mi succedeva al liceo, le volte che volevo parlare con qualche ragazza che non voleva parlarmi. Adesso anche Marjory se ne andrà? Potrei prendere un taxi per tornare da Tom e Lucia, ma non ho molto denaro con me.
— Sono contenta che tu stia bene — dice lei, e poi la porta si apre e la gente comincia a uscire dall'aeroplano. Lei cerca con gli occhi Karen e io guardo lei. Eccola: Karen è una donna piuttosto anziana, dai capelli grigi. Presto siamo di nuovo fuori e in macchina, diretti a casa di Karen. Io siedo zitto sul sedile posteriore e ascolto Marjory che parla con l'amica: le loro voci fluiscono e mormorano come acqua sulle rocce. Non posso seguire ciò che dicono, parlano troppo in fretta per me e poi non conosco le persone e i luoghi di cui parlano. Ma sono felice lo stesso, perché posso guardare Marjory senza bisogno di dover parlare.
Quando torniamo alla casa di Tom e Lucia, dov'è la mia macchina, Don se n'è andato e gli ultimi schermidori si stanno congedando. Io ricordo che non ho riposto le mie armi e la maschera ed esco in cortile per prenderle, ma Tom mi dice che sono state già rimesse al loro posto. Non sapeva precisamente quando io e Marjory saremmo tornati e non voleva lasciare la mia roba fuori al buio.
Saluto Tom, Lucia e Marjory e mi dirigo verso casa.
3
Il mio schermo sta lampeggiando quando arrivo a casa. È il codice di Lars: vuole che esamini la mia e-mail. È tardi e non vorrei rischiare di non svegliarmi in orario e non arrivare in tempo al lavoro domani mattina. Lars però sa che il mercoledì io vado a lezione di scherma e di solito non mi chiama mai. Deve trattarsi di qualcosa d'importante.
Accendo e trovo il suo messaggio. Mi ha inviato un articolo ritagliato da un giornale: parla di una ricerca sulla reversione dei sintomi di tipo autistico nei primati adulti. Lo leggo in fretta, col cuore che mi batte furiosamente. Oggi è diventata comune la reversione dell'autismo genetico nel neonato o di una lesione cerebrale che abbia dato luogo a sindromi di tipo autistico nei bambini piccoli; però mi avevano detto che per me era troppo tardi. Se l'articolo dice la verità, invece, non è troppo tardi. Proprio alla fine l'autore dell'articolo istituisce questa connessione, stabilendo l'ipotesi che la ricerca si potrebbe applicare agli esseri umani e suggerendo ulteriori indagini.
Mentre leggo, altre icone si accendono sullo schermo: il logo della società autistica locale, quello di Cameron e quello di Dale. Allora anche loro hanno saputo questa notizia. Per il momento li ignoro e continuo a leggere. Anche se qui si parla di cervelli come il mio, questo non è il mio campo e non riesco a capire come si pensa che funzioni il trattamento. Gli autori continuano a riferirsi ad altri articoli dove i procedimenti vengono spiegati più diffusamente. Ma quegli articoli non sono accessibili: non a me e non stanotte. Io non so cosa sia "il metodo di Ho e Delgracia". Non so neppure il significato di molti vocaboli, e il mio dizionario non li riporta.
Quando guardo l'orologio, è passata mezzanotte. Devo andare a letto, devo dormire. Spengo lo schermo, carico la sveglia; nella mia mente i fotoni corrono dietro al buio ma non lo raggiungono mai.
Al campus il giorno dopo siamo tutti riuniti dell'atrio, senza guardarci in viso. Tutti sanno.
— Credo sia un'impostura — dice Linda. — Non è possibile che funzioni.
— Ma se funzionasse… — suggerisce Cameron — se funzionasse, potremmo essere normali.
— Io non voglio essere normale — si oppone Linda. — Io sono così, e sono felice. — Ma non ha un'aria felice: ha un'aria cupa e decisa.
— Anch'io — dice Dale. — Anche se funziona per le scimmie, cosa significa? Le scimmie non sono persone, sono più primitive di noi. Le scimmie non parlano. — La sua palpebra vibra più del solito.
— Noi già comunichiamo meglio delle scimmie — dice Linda.
— A me però piacerebbe non dover farmi vedere da un psichiatra ogni quadrimestre — dice Cameron.
Penso alla dottoressa Fornum: sarei tanto più felice se non dovessi andare da lei. E lei, sarebbe felice di non dovermi vedere?
— Lou, e tu che ne dici? — chiede Linda. — Tu già vivi in parte nel loro mondo.
Ma tutti noi lo facciamo, noi che abbiamo un lavoro e conduciamo una vita indipendente. Linda però non ama far nulla con gente che non sia autistica, e già prima ha detto che secondo lei io non dovrei farmela col gruppo di schermidori di Tom e Lucia o con la gente della mia Chiesa. Se sapesse quali sono i miei sentimenti verso Marjory, probabilmente direbbe cose cattive.
— Io me la cavo abbastanza bene. Non capisco perché dovrei cambiare. — Sento che la mia voce è più dura del solito, e vorrei che questo non mi accadesse quando sono turbato. Non sono in collera e non mi va di avere la voce di uno in collera.
— Vedi? — dice Linda rivolta a Cameron, che distoglie lo sguardo.
— Devo lavorare — dico, e vado nel mio ufficio dove accendo il ventilatore e guardo le lucine colorate girare e ammiccare. Vorrei rimbalzare un po', ma non voglio essere in palestra nel caso arrivasse il signor Crenshaw. Mi sento il petto oppresso e non riesco a interessarmi al problema al quale sto lavorando.
Mi chiedo come sarebbe essere normale. Allorché uscii dalla scuola mi costrinsi a non pensarci più; adesso, quando mi ritorna in mente, mi affretto a scacciare l'idea. Ora però… cosa significherebbe non doversi preoccupare che la gente pensi che sono matto quando balbetto o quando non posso rispondere e devo scrivere sul mio taccuino? Cosa significherebbe non dover portare sempre in tasca quel mio cartoncino? Essere in grado di vedere e sentire tutto? Sapere cosa pensa la gente solo interpretando la sua espressione?
L'insieme di simboli su cui sto lavorando di colpo mi appare del tutto privo di significato.
È questo forse? È per questo che le persone normali non fanno il mio tipo di lavoro? Dovrei scegliere tra questo lavoro che so fare tanto bene o essere normale? Mi guardo intorno, e le girandole e le spirali di colpo mi annoiano. Non fanno che girare su se stesse: sempre lo stesso schema ripetuto all'infinito. Spengo il ventilatore. Se è questo essere normali, non mi piace.
Ecco che i simboli riacquistano vita, significato e io mi tuffo nel lavoro.
Quando torno a emergere è passata l'ora del pranzo. Ho mal di testa per essere rimasto fermo troppo a lungo e per non aver mangiato. E non ho neppure fame, ma so che devo mangiare. Vado nel cucinino annesso alla nostra ala e prendo la mia scatola di plastica dal frigorifero: contiene carne affumicata e frutta.
Mangio una mela e qualche chicco d'uva, mordicchio la carne. Il mio stomaco non reagisce bene. Mi piacerebbe andare in palestra, ma ci trovo Linda e Chuy e torno indietro.
Il pomeriggio pare trascinarsi all'infinito. Esco in stretto orario e mi dirigo verso la mia macchina. Nella mia mente c'è una musica tutta sbagliata, acuta e stridente. Vedo uscire anche gli altri, e tutti mostrano segni di tensione. Nessuno parla. Entro in macchina e parto.