«Come?» gridò Scyld, aspramente. «Osi forse protestare? Dov’è finita la tua lealtà, Boghaz?» Brandì alta la spada, facendo un passo avanti. «Tu sai bene qual è la punizione per i traditori!»

Gli altri soldati parevano sul punto di scoppiare, tanto era lo sforzo che facevano per reprimere le risa.

«No!» protestò raucamente Boghaz, con voce tremante. «Io sono un suddito leale di Sua Altezza. Nessuno potrà accusarmi di tradimento! Io desidero soltanto servire…» s’interruppe di colpo, rendendosi palesemente conto di essere stato tradito dalla sua stessa lingua.

Scyld vibrò un tremendo colpo, con il piatto della spada, sull’enorme posteriore di Boghaz.

«E allora, va’ a servire Sark e la tua Signora!» Boghaz fece un balzo avanti, ululando di dolore, e i soldati lo afferrarono. Entro pochi secondi, lui e Carse vennero incatenati assieme.

Con aria compiaciuta, Scyld infilò la spada di Rhiannon nel fodero della sua spada, che aveva lanciato a un ’soldato, perché gliela custodisse. Con il petto in fuori e l’aria tronfia, uscì per primo dalla capanna.

Per la seconda volta, Carse si ritrovò a percorrere le strade di Jekkara, ma questa volta di notte, e in catene, e privo dei suoi gioielli e della sua spada.

Prigionieri e soldati si diressero verso i moli del palazzo, e una sensazione fredda, oscura, di irrealtà, sopraffece ancora una volta Carse, facendogli scorrere un lungo, bizzarro brivido in tutto il corpo, alla vista delle alte torri splendenti di luci, e dei vaghi fuochi bianchi del mare, che scintillava di inesplicabile fosforescenza fino ai confini tenebrosi dell’orizzonte.

Tutto il quartiere che circondava il palazzo brulicava di schiavi, di uomini armati che indossavano la nera armatura di Sark, di cortigiani e di donne e di giocolieri e giullari. Quando passarono sotto al palazzo, udirono suoni di musica e di risate.

Boghaz parlò a Carse, tenendo la voce bassa, e in tono affannoso e urgente:

«Questo stupido non ha riconosciuto la spada. Non lasciarti sfuggire una sola parola sul tuo segreto… se non vuoi che ci conducano entrambi a Caer Dhu, per interrogarci, e sai bene cosa significa questo!» Il suo corpo enorme fu scosso da un lungo brivido.

Carse era troppo stordito per rispondere. Come una nera ondata, la reazione alla tremenda fatica, alla stanchezza, e a quel mondo incredibile che ora lo circondava, stava scendendo sul suo corpo. Erano ormai troppe ore che lui non riposava, e troppi eventi erano accaduti, ed era stato troppo grande e sconvolgente il mutamento che aveva sconvolto il corso della sua vita. Ora sentiva soltanto un’immensa stanchezza, che gli permetteva soltanto di camminare, un piede davanti all’altro, un piede davanti all’altro, mentre le catene che lo legavano a Boghaz rimbombavano pesantemente sui ciottoli.

Boghaz proseguì a voce alta, a beneficio dei soldati che li scortavano:

«Tutto questo splendore è in onore della Signora Ywain di Sark! Una principessa nobile e grande come suo padre, Re Garach! Servire nella sua galera sarà un privilegio.»

Scyld fece udire una risata beffarda.

«Ben detto, Valkisiano! E la tua fervida lealtà sarà degnamente premiata. Questo privilegio ti verrà concesso per molto tempo.»

La nera galera da guerra torreggiava cupa davanti a loro… era quella la loro destinazione. Carse vide che era lunga, snella, con la buca dei rematori che divideva il ponte, al centro, e un basso castello di prua.

Molte fiaccole illuminavano il basso ponte di poppa, e dalle finestre delle cabine sottostanti usciva un riverbero di luci rossastre. Là erano riuniti numerosi soldati di Sark, che scherzavano rumorosamente tra loro, tra grida e risate.

Ma nella lunga fossa dei rematori, al centro, non c’era il chiarore delle fiaccole, né il suono di voci allegre. Là c’erano soltanto l’oscurità e il silenzio.

Giunto ormai vicino alla galera, Scyld gridò, con voce roboante:

«Ehilà, Callus!»

Un uomo massiccio uscì dall’ombra della fossa, e scese la passerella con una disinvoltura che veniva da una lunga pratica. Nella destra stringeva una fiaschetta di cuoio, e nella sinistra uno scudiscio nero… un oggetto dalle molte sferze, appiattito e consumato dall’uso.

Salutò Scyld agitando la fiaschetta, senza disturbarsi a parlare.

«Porto rifornimenti per i remi,» disse Scyld. «Prendili.» Ridacchiò. «E bada che siano incatenati allo stesso remo!»

Callus guardò Carse e Boghaz, poi sorrise, pigramente, e agitò la fiaschetta.

«Avanti, carogne,» grugnì, e vibrò un colpo di scudiscio.

Carse si fermò per un momento, guardando Callus con gli occhi arrossati per la stanchezza, ma ugualmente fieri e rabbiosi, e mandò un suono sordo, minaccioso. Boghaz si affrettò ad afferrare la spalla del terrestre con dita forti, e a scuoterlo con decisione.

«Vieni, stupido!» disse. «Riceveremo abbastanza scudisciate, senza che tu abbia bisogno di chiederne altre!»

Trascinò Carse con lui, giù, nella fossa dei rematori, e poi lungo la stretta passerella che formava una corsia tra le file dei banchi.

Il terrestre, esausto per le emozioni e la stanchezza fisica, si accorse confusamente, vagamente, dei volti che si giravano a guardarli, del sordo borbottio delle catene e dell’odore di sentina. Vide a malapena le bizzarre teste rotonde delle due creature pelose che dormivano sulla passerella, e che si scostarono per lasciarli passare.

L’ultimo banco di tribordo, proprio di fronte al castello di prua, aveva soltanto un uomo incatenato al remo, un uomo che in quel momento era addormentato, mentre gli altri due posti erano vuoti. I soldati rimasero di guardia, fino a quando Boghaz e Carse non furono saldamente incatenati al remo a loro volta.

Poi, i soldati se ne andarono, guidati da Scyld. Callus fece schioccare lo scudiscio, producendo un suono secco e violento come uno sparo, apparentemente per ammonire tutti i rematori della sua vigilanza, e se ne andò a prua.

Boghaz diede una gomitata a Carse, nelle costole. Poi si curvò su di lui, e cominciò a scuoterlo. Ma il terrestre era in un regno nel quale ciò che Boghaz voleva dirgli non aveva più importanza; si era addormentato di colpo, profondamente, chino sul suo remo.

Carse sognava. Sognava di rivivere quel pauroso tuffo d’incubo, attraverso gli infiniti ululanti della nera bolla scintillante, celata nella stanza più segreta della Tomba di Rhiannon… Come allora, lui stava precipitando da altezze incalcolabili, verso abissi incommensurabili, abissi neri e misteriosi e infiniti come il tempo, come il mondo fatto di nulla che si apriva oltre i confini dell’universo. Cadeva, cadeva…

E di nuovo, ebbe la sensazione di una presenza, una presenza forte e viva, che era vicinissima a lui; in quel tuffo spaventoso, gli parve che qualcosa stesse tentando di ghermire il suo cervello, con un’ansia tenebrosa e orrenda.

«No!» bisbigliò raucamente Carse, nel sogno. «No!»

Bisbigliò ancora il suo rifiuto… il rifiuto di qualcosa che la nera presenza gli stava chiedendo, qualcosa di orribile e misterioso e velato.

Ma la presenza faceva udire di nuovo la sua domanda, ed era una supplica, una invocazione, una preghiera, sempre più urgente, sempre più insistente, e qualunque fosse la natura della sua domanda, della sua supplica, ora pareva infinitamente più forte di quella intuita nella Tomba di Rhiannon. Sgomento, Carse lanciò un grido di terrore.

«No, Rhiannon!»

E improvvisamente scoprì di essere sveglio, e di fissare confusamente, con occhi fissi e offuscati, il banco e il remo illuminati dal soffuso, contrastante chiarore delle lune.

Callus e il sorvegliante stavano avanzando lungo la passerella, distribuendo grandi colpi di frusta tra gli schiavi, per svegliarli. Boghaz stava fissando Carse, con una strana espressione sul volto di luna piena.

«Tu hai invocato il nome del Maledetto!» disse.


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