Fu questo l’argomento che li convinse. L’unica cosa più grande e potente dell’odio e del terrore che essi provavano per il Maledetto del passato, era il loro ardente, ansioso desiderio di possedere le leggendarie armi che, in breve tempo, avrebbero significato la vittoria, e la libertà di Khondor.
Carse li vide esitare, riflettere, ancora dubbiosi, ancora incerti. Ma capì quale sarebbe stata la loro decisione, ancor prima che Rold si rivolgesse di nuovo a lui, dicendo:
«Accettiamo, Carse. Certo, sarebbe più sicuro ucciderti qui, in questo momento, ma… la necessità che abbiamo di quelle armi è ancora più grande.»
Carse sentì l’alito gelido della morte imminente allontanarsi un poco da lui. Si rivolse al Re del Mare, mettendolo in guardia:
«Non sarà facile. La Tomba è vicina a Jekkara.»
Barbadiferro domandò:
«Che ne faremo di Ywain?»
«Che sia messa subito a morte!» disse Thorn di Tarak, seccamente.
Ywain rimase immobile, silenziosa, guardandoli con fredda indifferenza.
Ma fu Emer a opporsi, questa volta:
«Rold sta per partire per un’impresa rischiosa. Fino a quando egli non sarà ritornato sano e salvo, dobbiamo tenere viva Ywain, nel caso ci servisse un ostaggio.»
Fu solo allora che Carse vide Boghaz, nell’ombra, e il grasso Valkisiano scuoteva il capo, con aria infelice, e grosse lacrime gli scendevano sulle guance.
«Ha regalato a questa gente un segreto che vale un regno!» stava singhiozzando. «Sono stato derubato!»
Capitolo XIII
CATASTROFE
I giorni che seguirono quel terribile momento furono lunghi e bizzarri, per Matthew Carse. Egli disegnò a memoria una mappa delle colline che dominavano Jekkara, indicando il luogo in cui si trovava la Tomba, e Rold la studiò, imprimendosela nella mente in maniera indelebile, fino a quando non la conobbe come conosceva la sua casa. Allora egli bruciò la pergamena.
Rold prese una sola nave, con una ciurma scelta, e partì da Khondor nel cuore della notte. Jaxart partì con lui. Tutti conoscevano gli enormi pericoli di quel viaggio. Ma una imbarcazione snella e veloce, con dei Nuotatori in avanscoperta, per esplorare le acque, avrebbe potuto sfuggire alla continua sorveglianza dei Sark. Avrebbero lasciato la nave in secca, sulla riva sabbiosa di una caverna nascosta che si apriva sul mare, della quale Jaxart conosceva l’esistenza, e che si trovava a ovest di Jekkara; avrebbero compiuto il resto del tragitto per via terra.
«Se dovesse accadere qualcosa durante il viaggio di ritorno,» proclamò Rold, con cupa solennità, «Affonderemo la nostra nave.»
E dal momento in cui la nave era salpata per la sua pericolosa missione, non ci fu più niente da fare, se non aspettare.
Carse non rimaneva mai solo. Gli vennero assegnate tre camere piccole, in un’ala deserta del Palazzo, e in ogni momento c’erano delle guardie che lo sorvegliavano a vista.
Una paura corrosiva si stava insinuando nella sua mente, malgrado tutti gli sforzi che egli compiva per liberarsene. Si sorprendeva più volte ad ascoltare, nel silenzio dei propri pensieri, cercando di scoprire l’insinuarsi di una voce interiore, straniera; ed egli cercava, nei propri pensieri e nelle proprie azioni, di scoprire qualche piccolo segno, o qualche piccolo gesto, che non fossero suoi. L’orrore di quell’esame mentale nella caverna dei Sapienti aveva lasciato sul suo spirito una terribile cicatrice, un marchio che non sarebbe mai più scomparso. Ora sapeva. E, sapendo, non avrebbe più potuto dimenticare… neppure per un momento.
Così di giorno e di notte ascoltava i suoi pensieri, aspettando che in essi si insinuasse una voce furtiva. Così, di giorno e di notte, sorvegliava le sue reazioni e i suoi gesti, cercando di scoprirvi il segno di qualcosa di alieno, di diverso da lui.
Non era il terrore della morte a opprimerlo, benché, essendo umano, lui non volesse morire. Era il terrore, l’atroce terrore di rivivere ancora quell’orribile momento, nel quale lui aveva cessato d’essere se stesso, nel quale la sua mente e il suo corpo erano stati posseduti, in ogni cellula, in ogni atomo, dall’oscuro invasore. Peggiore del terrore della pazzia, gravava su di lui l’inumano, allucinante terrore del dominio di Rhiannon.
Emer veniva spesso a parlare con lui, a studiarlo. Carse sapeva che la fanciulla vigilava, cercando di scoprire in lui gli eventuali segni dell’insorgenza di Rhiannon. Ma finché ella sorrideva, Carse sapeva di essere salvo.
Non aveva più guardato nella sua mente, da allora. Ma una volta aveva accennato a ciò che vi aveva visto.
«Tu vieni da un altro mondo,» gli disse, con quieta certezza. «Credo di averlo capito dal primo momento in cui ti ho visto. Tutti i suoi ricordi erano nella tua mente… un luogo desolato e deserto, infinitamente strano e infinitamente triste.»
Si trovavano sull’angusto balcone del piccolo appartamento di Carse, un balcone sospeso sulla parete a strapiombo sul mare, più in basso, molto più in basso della cima dello scoglio, e il vento soffiava forte e profumato dalle verdi foreste dell’entroterra.
Carse annuì.
«Un mondo amaro, un mondo crudele. Ma possiede una sua bellezza.»
«C’è bellezza anche nella morte,» disse Emer, «Ma io sono felice di sentirmi viva.»
«Dimentichiamo quell’altro luogo, allora. Parlami di questo, che vive con tanta forza, con tanta intensità. Rold mi ha detto che tu frequenti molto spesso gli Halfling.»
Lei rise.
«A volte mi prende in giro, dicendo che sono una creatura fatata, e che in realtà non sono umana.»
«In questo momento non sembri umana,» le disse Carse, «Con il chiarore delle lune sul tuo volto, e con i tuoi capelli che scintillano dei riflessi di questo chiarore.»
«A volte, vorrei che fosse vero. Tu sei mai stato nelle Isole dei Celesti?»
«No.»
«Sono come castelli che sorgono dal mare, alti quasi quanto Khondor. Quando i Celesti mi portano là, oppure io sono costretta a rimanere sul terreno, mentre essi volano felici intorno a me, battendo l’aria con quelle loro grandi, immense ali. Mi sembra allora che il loro volo sia la cosa più bella del mondo, che non ci sia nulla di più bello che volteggiare felici nell’aria, sfrecciando veloci e scendendo lenti… e allora piango, piango per questa gioia che non potrò mai conoscere.
«Ma quando vado con i Nuotatori, sono ancor più felice. Il mio corpo è molto più simile al loro che a quello dei Celesti, anche se non è così agile e leggero. Ed è meraviglioso… oh, sì, meraviglioso!… tuffarsi nelle acque scintillanti, e vedere i giardini che essi coltivano, giardini sommersi, colmi degli strani fiori marini che ondeggiano e s’inchinano nella corrente, con i pesciolini colorati che sfrecciano in mezzo a loro come uccelli.
«E le loro città, bolle d’argento nelle acque dell’oceano. Laggiù il cielo è sempre un ardente concerto di fiamma, d’oro purissimo quando splende il sole, di puro argento quando cade la notte. È sempre caldo, e l’aria è quieta e immobile, densa e trasparente e tiepida, e ci sono piccole pozze ove i bambini giocano, imparando a essere forti per potere affrontare il mare aperto.
«Io ho imparato molte, moltissime cose dagli Halfling!» concluse.
«Ma anche i Dhuviani sono Halfling?» domandò Carse.
Emer rabbrividì.
«I Dhuviani sono la più antica, tra tutte le razze degli Halfling. Ormai sono rimasti in pochi, e abitano tutti a Caer Dhu.»
D’un tratto, Carse le domandò:
«Tu che possiedi la sapienza degli Halfling… non conosci alcun modo, per liberarmi dalla cosa mostruosa che è in me?»
Lei riprese, con tristezza:
«Neppure i Sapienti sono capaci di tanto.»
Il terrestre serrò i pugni, rabbiosamente, e la sua voce fu come un grido di collera e di disperazione, nel silenzio del balcone.
«Allora, sarebbe stato meglio che mi aveste ucciso là, nella caverna!»