La notte era pesante e tenebrosa, quando essi s’imbarcarono su una bassa imbarcazione nera, che non aveva né remi, né vela. L’imbarco avvenne al molo del palazzo, e creature incappucciate e ammantate come Hishah immersero lunghi pali nell’acqua, e la chiatta si mosse lungo l’estuario, allontanandosi dal mare.

Garach era rannicchiato tra i cuscini di pelliccia di un divano, una figura per niente regale, con mani che tremavano e il volto pallido come quello di un cadavere. I suoi occhi seguivano costantemente, in maniera furtiva, la forma scura e indistinta di Hishah. Evidentemente, l’idea di quella visita alla corte dei suoi alleati non sorrideva troppo al monarca.

Ywain si era ritirata all’estremità opposta della chiatta, dove rimaneva seduta, fissando le tenebre della riva bassa e paludosa. Carse ebbe l’impressione che lei fosse molto più depressa e abbattuta di quanto non fosse mai stata quando era stata prigioniera e in catene.

Anche lui sedeva in disparte, esteriormente solenne e maestoso, interiormente scosso e turbato, fin nel profondo dell’anima. Boghaz era rannicchiato nell’ombra, poco lontano da lui. Gli occhi del grasso Valkisiano erano lividi e colmi di terrore.

E il Maledetto, il vero Rhiannon, era quieto e silenzioso. Troppo silenzioso. In quell’angolo segreto dei più profondi recessi della mente di Carse, non c’era l’ombra di un movimento, non c’era assolutamente nulla. Pareva che l’oscuro reietto dei Quiru fosse come tutti coloro che si trovavano a bordo… isolato, e in attesa.

Il viaggio lungo l’estuario parve interminabile. L’acqua scivolava sotto la chiatta con un sussurro di sibilante, crudele scherno. Le figure dalle lunghe vesti nere e dai neri mantelli erano curve sui pali, e spingevano la bassa imbarcazione. Di quando in quando, della vicina palude giungeva il richiamo rauco di un uccello notturno, e l’aria notturna era tenebrosa, strana, e pareva carica di minaccia.

Poi, alla luce delle due piccole lune basse, Carse poté vedere più avanti le mura indistinte e i contrafforti e le torri di una città che si ergeva nella nebbia, una città molto, molto antica, cinta di mura come un castello. Tutt’intorno, le parti esterne erano sgretolate e in rovina, e solo il grande nucleo centrale era intatto.

L’aria, intorno a quel luogo sinistro, brillava di una pallida luminescenza. Carse pensò che quel fenomeno fosse dovuto a uno scherzo dell’immaginazione, una semplice illusione ottica provocata dal chiarore lunare che si specchiava nelle acque luminescenti e rischiarava stranamente il pallido sudario di nebbia che gravava tutt’intorno.

La chiatta si avvicinò a un molo sgretolato dal tempo. Si fermò, e Hishah scese a terra, inchinandosi profondamente, e facendosi da un lato per lasciare passare Rhiannon.

Carse avanzò a grandi passi lungo il vecchio molo, seguito da Garach, da Ywain e dallo spaventatissimo Boghaz. Hishah rimase, ossequiosamente, alle calcagna di Carse.

Un sentiero lastricato di pietra nera, logorato dal peso degli anni, saliva verso la cittadella. Carse s’incamminò su di esso, risolutamente. Adesso ne era sicuro… poteva vedere una debole, pulsante rete di luminosità spettrale intorno a Caer Dhu, nell’aria. Gravava sull’intera città, scintillando di un riverbero metallico, come la luce delle stelle in una gelida notte.

Non gli piacque l’aspetto di quella strana luminescenza. E, avvicinandosi, gli piacque sempre meno, soprattutto quando vide che in un certo punto attraversava il sentiero, bloccandolo come una cortina, come un velo, proprio di fronte al grande portale.

Eppure nessuno parlò, nessuno esitò. Apparentemente, tutti si aspettavano che fosse lui a guidarli, ad entrare per primo, e lui non osava rivelare la sua ignoranza della natura di quella luminosità. Così, si sforzò di avanzare a grandi passi, forte e sicuro, celando in cuor suo tutta l’apprensione che in realtà stava provando.

Era già abbastanza vicino a quella rete scintillante, per avvertire uno strano formicolio, una specie di corrente di energia che attraversava l’aria, e gli faceva tremare tutti i peli del corpo. Un altro passo lo avrebbe portato entro quella strana barriera luminescente. Già stava per sfiorarla, quando Hishah gli disse seccamente all’orecchio, con voce sibilante:

«Signore! Hai forse dimenticato il Velo, il cui contatto significa morte?»

Carse indietreggiò. Una tremenda ondata di paura gli percorse il corpo e la mente, e nello stesso istante egli si rese conto di avere commesso un gravissimo errore.

Si affrettò a dire:

«Certo che non l’ho dimenticato!»

«No, Signore,» mormorò Hishah. «Come potevi, infatti, avere dimenticato, quando sei stato tu a insegnarci il segreto del Velo che distorce lo spazio e protegge Caer Dhu da qualsiasi forza?»

Ora Carse capiva che quella rete scintillante doveva essere una barriera difensiva di energia, di una energia così potente da stabilire una tensione, nel tessuto stesso dello spazio, nella quale nulla poteva penetrare.

Pareva incredibile. Eppure, la scienza dei Quiru era stata grande, e Rhiannon ne aveva insegnato alcuni segreti ai remoti antenati di quei Dhuviani.

«Sì, infatti, come avresti potuto dimenticare, proprio tu?» ripeté Hishah.

Non c’era la più lieve ombra d’ironia nelle sue parole, eppure Carse intuì che c’era qualcosa di beffardo, in esse… qualcosa di sottilmente celato, e che pure la sua mente riusciva a capire.

Il Dhuviano fece un passo avanti, e sollevò le braccia, facendo evidentemente un segnale a qualche guardiano che doveva trovarsi all’interno della mura. La luminescenza del Velo impallidì e scomparve, al di sopra del sentiero, lasciando libero un passaggio per loro.

E quando Carse si voltò, per procedere verso la porta di Caer Dhu, notò che Ywain lo stava fissando, con uno sguardo sorpreso e incredulo, nel quale già si affacciava l’ombra crescente di un dubbio. Il grande portale si aprì, maestosamente, e il Signore Rhiannon dei Quiru venne ammesso a Caer Dhu.

Gli antichi corridoi erano fiocamente illuminati da strani oggetti, che parevano globi di fuoco prigioniero, eretti alla sommità di grandi tripodi che sorgevano a lunghi intervalli, e irradiavano intorno una fredda luce verdastra. L’aria era tiepida, e impregnata del pesante fetore del Serpente, un lezzo odioso che chiuse la gola di Carse in un nodo fatto di vertigine, di nausea e di crescente, istintivo odio.

Hishah li precedeva, ora, e già questo era un segnale di pericolo, perché Rhiannon avrebbe dovuto conoscere bene la strada. Ma Hishah disse che desiderava avere l’onore di annunciare il suo Signore, e Carse non poté fare nulla, all’infuori che soffocare il terrore che già lo pervadeva, e di seguire la nera figura incappucciata.

Giunsero in una vasta sala centrale, chiusa da altissime pareti di roccia nera, che salivano fino a formare un’alta volta, che si perdeva nelle tenebre. Al di sotto, un unico, enorme globo dissipava in parte le fitte ombre, con la sua fioca luce.

C’era poca luce, per gli occhi di un essere umano. Ma anche quel poco era troppo, in quel luogo!

Perché nella sala i figli del serpente erano riuniti per dare il benvenuto al loro signore. E qui, nella loro città, essi non erano celati dalle lunghe vesti incappucciate, dai pesanti, neri mantelli che indossavano quando andavano tra i figli degli uomini.

I Nuotatori appartenevano al mare, i Celesti appartenevano al cielo, ed erano perfetti e splendidi, perfettamente adatti al loro elemento. E ora Carse poteva vedere la terza razza pseudo-umana degli Halfling dell’antico Marte… i figli delle tenebre, dei luoghi nascosti e segreti, i rampolli perfetti, spaventosamente perfetti di un altro grande ordine naturale.

In quel primo momento di turbamento, di ribrezzo e di orrore, Carse si rese conto solo confusamente che la voce di Hishah stava pronunciando il nome di Rhiannon, e il sibilante, sommesso grido di benvenuto che seguì quella parola fu solo un suono che esprimeva la piena, orribile dimensione dell’incubo che il terrestre pensava di vivere.


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