— Sai, non sono d’accordo — disse a Vopek, un uomo dal viso affilato, che faceva il chimico agricolo ed era diretto ad Abbenay. — Io penso che siano soprattutto gli uomini, coloro che devono imparare ad essere anarchici. Le donne invece non devono impararlo.

Vopek scosse il capo. — Si tratta dei figli — disse. — Avere bambini. Le rende proprietariste. Non vogliono rinunciare. — Sospirò. — Un contatto e via, fratello, questa è la regola. Non lasciarti mai prendere in proprietà.

Shevek sorrise e sorbì il succo di frutta. — No di certo — disse.

Era una gioia ritornare all’Istituto Regionale, rivedere le basse alture ricoperte a macchie da cespugli di holum dalle foglie color del bronzo, gli orti, i domicili, i dormitori, le officine, le aule, i laboratori tra cui era vissuto da quando aveva tredici anni. Per lui, il ritorno avrebbe avuto sempre la stessa importanza del viaggio di partenza. Andare via non gli era sufficiente: gli bastava soltanto a metà, ed egli doveva tornare indietro. Forse, in questa tendenza, si adombrava già la natura dell’immensa esplorazione ch’egli avrebbe compiuto in direzione dei margini del comprensibile. Probabilmente non si sarebbe mai avviato lungo quell’impresa pluriennale se non avesse avuto la fonda certezza che fosse possibile il ritorno, anche se egli stesso non fosse dovuto ritornare: che in realtà nella natura stessa del viaggio, come in una circumnavigazione del globo, era implicito il ritorno. Non scenderai due volte allo stesso fiume, né potrai tornare nuovamente a casa. Ed egli lo sapeva: anzi, era questa la base della sua visione del mondo. Eppure, da una simile accettazione della transitorietà, egli aveva sviluppato la sua vasta teoria, in cui ciò che è più mutabile veniva mostrato essere più pieno di eternità, e in cui la tua relazione con il fiume, e la relazione del fiume con te, e con se stesso, risulta essere insieme più complessa e più rassicurante di una mera mancanza di identità. Tu puoi davvero tornare a casa, così afferma la Teoria Temporale Generale, purché tu comprenda che «casa» è un luogo in cui non sei mai stato.

Egli era lieto, dunque, di tornare al luogo che, entro i termini in cui egli ne aveva avuta, o desiderato, una, si avvicinava maggiormente a una casa. Ma trovò i suoi amici, laggiù, alquanto privi di esperienza. Egli era maturato molto, nell’anno precedente. Alcune delle ragazze si erano tenute alla pari con lui, o l’avevano superato: erano diventate donne. Egli si limitò, comunque, ad avere contatti estremamente cauti e formali con le ragazze, poiché non cercava, ora come ora, un’altra dose di sesso; aveva altro da fare. Notò che anche le ragazze più brillanti, come ad esempio Rovab, si comportavano in modo altrettanto cauto; nei laboratori, nelle squadre di lavoro e nelle stanze comuni del dormitorio si comportavano come buone amiche, ma niente di più. Le ragazze intendevano completare il loro addestramento e cominciare le ricerche o trovare un incarico di loro piacimento prima di avere figli; non si sentivano più soddisfatte dalle sperimentazioni sessuali dell’adolescenza. Desideravano una relazione matura, non una relazione sterile; ma non ora, non ancora.

Queste ragazze erano buone colleghe, amichevoli e indipendenti. I ragazzi dell’età di Shevek, invece, parevano essersi fermati al limitare di una fanciullezza che diventava un po’ lisa e arida. Erano iper-intellettuali. Non parevano intenzionati a dedicarsi né al lavoro né al sesso. A sentir parlare Tirin, pareva che fosse stato lui a inventare la copulazione, ma tutte le sue relazioni erano con ragazze di quindici o sedici anni; si ritraeva da quelle della sua età. Bedap, che non era mai stato molto attivo dal punto di vista sessuale, accettava l’omaggio di un ragazzo più giovane, che nutriva un’infatuazione idealistico-omosessuale nei suoi riguardi, e tanto gli bastava. Pareva non prendere nulla sul serio, era divenuto ironico e misterioso. Shevek si sentì isolato dalla sua amicizia. Nessuna amicizia resisté: anche Tirin era troppo egocentrico, e negli ultimi tempi troppo capriccioso, per ricostituire l’antico sodalizio… se Shevek avesse avuto l’intenzione di ricostituirlo. Ma, in realtà, Shevek non ne aveva l’intenzione. Diede il benvenuto all’isolamento, con tutto il cuore. Non pensò mai che il riserbo incontrato in Bedap e Tirin potesse essere una reazione; che il suo carattere, gentile ma ormai già eccezionalmente ermetico, potesse creare intorno a sé un suo proprio ambiente circostante: un ambiente che richiedeva o una grande forza, o una grande devozione, per farsi sopportare. In verità, l’unica cosa notata da Shevek fu ch’egli, finalmente, aveva tempo per lavorare.

Giù nel Sudest, dopo essersi assuefatto alla continua fatica fisica, e dopo avere smesso di sprecare il cervello sulle lettere in codice e di sprecare lo sperma in polluzioni notturne, gli erano cominciate a venire delle idee. E adesso era libero di lavorare su di esse, per vedere se contenevano qualcosa d’importante.

Il fisico anziano dell’Istituto si chiamava Mitis, ed era una donna. Ella non dirigeva in quel momento i corsi di fisica, poiché tutti i lavori amministrativi rotavano anno per anno tra i venti incaricati permanenti, ma lavorava già da vent’anni laggiù, e tra tutti aveva la miglior mente. C’era sempre una sorta di spazio psicologico vuoto intorno a Mitis, come l’assenza di folla intorno alla cima di una montagna. La mancanza di ogni tipo di accentuazione dell’autorità, e di ogni tipo di misure per farla rispettare, rendevano evidente l’autorità quando ci si trovava davvero alla sua presenza. Ci sono persone in cui l’autorità è innata; certi imperatori hanno davvero i vestiti nuovi.

— Ho inviato il tuo articolo sulla Frequenza Relativa a Sabul, ad Abbenay — disse a Shevek nel suo modo brusco e amichevole. — Ti interessa la risposta?

Spinse sul piano del tavolo un pezzo stracciato di carta; evidentemente si trattava di un angolo di un foglio più grande. Sopra, in minuscole lettere tracciate a penna, c’era un’equazione:

ts / 2 (R) = 0

Shevek si appoggiò alla superficie del tavolo con le mani e osservò il pezzo di carta, con lo sguardo fisso. Aveva gli occhi chiari, e la luce proveniente dalla finestra li colmava in modo da farli parere trasparenti come l’acqua. Aveva diciannove anni. Mitis ne aveva cinquantacinque. E ora lo osservava con compassione e ammirazione.

— Ecco cosa mancava — disse lui. La sua mano incontrò una matita sulla tavola. Cominciò a scrivere sul frammento di carta. Mentre scriveva, il suo volto pallido, inargentato di peluria corta e sottile, divenne rosso.

Mitis aggirò silenziosamente il tavolo per andarsi a sedere. Aveva disturbi circolatori alle gambe, e non poteva stare in piedi a lungo. Quel movimento disturbò Shevek. Egli alzò gli occhi, con un’espressione di fastidio nello sguardo.

— Posso finirlo in un giorno o due — disse.

— Sabul desidera vedere i risultati, quando avrai finito.

Ci fu una pausa. Il colore di Shevek tornò normale, ed egli ridivenne consapevole della presenza di Mitis, ch’egli amava molto. — Perché hai mandato a Sabul quel mio articolo? — le chiese. — Con quel buco dentro! — Sorrise; il piacere di avere colmato il buco logico del ragionamento lo rendeva raggiante.

— Pensavo che potesse trovare il punto dove ti sbagliavi. Io non c’ero riuscita. E inoltre, volevo fargli vedere cosa stai facendo… Ti chiederà di andare laggiù ad Abbenay, sai.

Il giovanotto non rispose.

— Tu, vuoi andare?

— Non ancora.

— Così pareva anche a me. Ma devi andare. Per i libri, per le menti che potrai trovare laggiù. Non sprecherai la tua intelligenza in un deserto! — Mitis parlò con passione. — È tuo dovere cercare il meglio, Shevek. Non permettere mai a un falso egalitarismo di danneggiarti. Lavorerai con Sabul, è bravo, ti farà lavorare sodo. Ma dovrai essere libero di trovare il filone che desideri seguire. Resta qui ancora una stagione, poi vai. E fai attenzione, ad Abbenay. Mantieniti libero. Ogni centro comporta potere. Tu stai per recarti nel centro di tutto. Io non conosco bene Sabul; non posso dire nulla contro di lui, ma tieni in mente soprattutto una cosa: sarai un uomo suo.


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