L’uomo, che pareva sulla cinquantina e che aveva il volto solcato da rughe, consumato, disse una frase di cui Shevek non afferrò neppure una parola, e non strinse la mano che gli veniva offerta. Forse erano i pacchetti a impedirglielo, ma egli non fece mossa di spostarli per liberarsi la mano. Il suo viso aveva un’espressione estremamente seria. Era possibile che fosse in imbarazzo.

Shevek, che era certo di avere imparato i modi di salutare degli urrasiani, era sconcertato. — Venga avanti — ripeté, e quindi aggiunse, dato che gli urrasiani erano avvezzi a usare titoli ad ogni piè sospinto: — Signore!

L’uomo se ne uscì con un’altra delle sue frasi incomprensibili, e intanto scivolò verso la camera da letto. Questa volta Shevek riconobbe alcune parole iotiche, ma non riuscì a capire le altre che le accompagnavano. Non cercò di fermare l’uomo, dato che pareva intenzionato a recarsi in camera da letto. Forse si trattava di un compagno di stanza? Ma c’era un letto solo. Shevek lasciò perdere la cosa e tornò alla finestra, e l’uomo si affrettò a entrare nella stanza; Shevek lo sentì muoversi lì dentro ancora per alcuni minuti. Proprio mentre Shevek era giunto alla conclusione che si trattava di qualche lavoratore che faceva il turno di notte e che usava quella stanza durante il giorno, come a volte si faceva in caso di temporanei sovraffollamenti dei domicili, l’uomo riapparve dalla stanza. Disse qualche parola («Ecco fatto, signore», forse?) e piegò la testa in un modo alquanto bizzarro, come se credesse che Shevek, che distava da lui almeno cinque metri, stesse per dargli un pugno in faccia. Poi se ne andò. Shevek rimase fermo accanto alla finestra, intento a comprendere lentamente come per la prima volta qualcuno gli avesse rivolto un inchino.

Entrò nella camera da letto e scoprì che il letto era stato rifatto.

Lentamente, pensosamente, si rivestì. Si stava infilando le scarpe quando udì battere all’uscio una seconda volta.

Si trattava di un gruppo di persone, che entrarono in modo assai diverso dal precedente; entrarono in modo normale, pensò Shevek, come se avessero il diritto di trovarsi lì, o in qualsiasi altro posto in cui piacesse loro di andare. L’uomo con i pacchetti si era comportato in modo esitante, era entrato in modo quasi furtivo. E tuttavia il suo volto, le sue mani, i suoi abiti corrispondevano all’idea che Shevek aveva dell’aspetto di un normale essere umano: vi corrispondevano molto più che non l’aspetto dei nuovi venuti. L’uomo furtivo si era comportato in modo strano, ma era sembrato un anarresiano. I quattro che erano giunti ora si comportavano come anarresiani. ma il loro aspetto, con quel loro viso rasato e quei vestiti sgargianti, pareva quello di individui appartenenti a una specie diversa, di un altro mondo.

Shevek riuscì a riconoscere Pae in uno di essi; gli altri erano persone che erano rimaste accanto a lui per tutta la sera precedente. Spiegò di non avere afferrato bene i loro nomi, ed essi ripeterono le presentazioni, con un sorriso: dottor Chifoilisk, dottor Oiie e dottor Atro.

— Oh, accidenti! — esclamò Shevek. — Atro! Come sono lieto di incontrarti! — Posò le mani sulle spalle dell’uomo più anziano e gli baciò la guancia, prima che gli venisse in mente che quel saluto fraterno, comunissimo su Anarres, qui forse era inaccettabile.

Atro, invece, lo abbracciò a sua volta con trasporto, e lo fissò con occhi grigi e lucidi. Shevek si accorse che era quasi cieco. Mio caro Shevek — disse, — benvenuto in A-Io… benvenuto su Urras… benvenuto a casa!

— Per tanti anni ci siamo scritti soltanto delle lettere, distruggendoci reciprocamente le teorie!

— Tu sei sempre stato il miglior distruttore. Ecco, tieni, ti devo dare una cosa. — Il vecchio si frugò nelle tasche. Sotto la toga universitaria di velluto indossava una giacca, e sotto di essa un panciotto, poi, sotto ancora, una camicia, e probabilmente un altro strato di indumenti ancora. Ciascuno di questi, e anche i calzoni, aveva tasche. Shevek rimase a guardare, affascinato. Atro che esplorava in successione sei o sette tasche, ciascuna delle quali conteneva alcuni oggetti di sua proprietà, e poi tirava fuori un piccolo cubo di metallo giallo montato su un pezzo di legno levigato. — Ecco — disse, portandoselo davanti agli occhi. — Il tuo premio. Il premio Seo Oen, sai già. L’assegno ti è stato versato nel conto. Tieni. Nove anni di ritardo, ma è meglio tardi che mai. — Gli tremavano le mani mentre consegnava a Shevek l’oggetto.

Era pesante; il cubo giallo era d’oro massiccio. Shevek rimase immobile, con il premio in mano.

— Non so cosa vogliate fare voialtri giovanotti — disse Atro, — ma io adesso mi siedo. — Tutti si accomodarono nelle poltrone profonde e morbide; Shevek le aveva già esaminate in precedenza, ed era incuriosito dal materiale di cui erano coperte: un materiale marrone che non era un tessuto e che al tatto pareva pelle. — Quanti anni avevi, nove anni fa, Shevek?

Atro era il più importante fisico urrasiano vivente. Non c’era in lui soltanto la dignità degli anni, ma anche la schietta sicurezza delle persone abituate a venire rispettate. Non si trattava di una cosa nuova per Shevek. Atro aveva esattamente l’unico tipo di autorità che Shevek potesse ammettere. Inoltre gli piaceva, finalmente, che qualcuno si rivolgesse a lui parlandogli in modo tanto familiare.

— Avevo ventinove anni quando finii i Princìpi, Atro.

— Ventinove? Santo Dio. Sei quindi il più giovane Premio Seo Oen negli ultimi cento anni. Non si sono decisi a darmi il mio finché non ho avuto sessant’anni o giù di lì… Quanti anni avevi allora, quando mi hai scritto per la prima volta?

— Circa venti.

Atro sbuffò. — Ti avevo preso per un quarantenne, all’epoca! — disse.

— E Sabul? — domandò Oiie. Oiie aveva una statura ancora più bassa di quella media degli urrasiani, che parevano tutti piccini a Shevek; aveva volto pacioso e ovale, occhi neri come giaietto. — C’è stato un periodo di sei, sette anni in cui lei non ci ha scritto, e i contatti con noi venivano tenuti da Sabul; ma Sabul non ha mai parlato con noi mediante il ponte radio del vostro pianeta. Ci siamo spesso chiesti quale fosse il rapporto tra voi.

— Sabul è il membro anziano per la fisica all’Istituto di Abbenay — disse Shevek. — Io lavoravo con lui.

— Un rivale più anziano; geloso; ha messo le mani nei libri di Shevek; la cosa era abbastanza chiara. Non c’è bisogno di spiegazione, Oiie — disse il quarto del gruppo, Chifoilisk, con voce brusca. Era di mezza età: un uomo di carnagione più scura, robusto, con le mani curate della persona che lavora a tavolino. Era l’unico di loro che non si radesse completamente la faccia: si era lasciato la peluria sul mento, per equilibrare i capelli corti, color grigio ferro. — Non è il caso di pretendere che tutti voi fratelli odoniani siate pieni di amore fraterno — disse. — La natura umana è sempre quella.

L’assenza di una risposta da parte di Shevek sarebbe potuta parere assai significativa, ma egli venne salvato da una serie di starnuti. — Non ho un fazzoletto — si scusò, strofinandosi gli occhi.

— Prendi il mio — disse Atro, ed estrasse da una delle proprie tasche un fazzoletto, bianco come la neve. Shevek lo prese, e mentre così faceva, un ricordo importuno gli strinse il cuore. Ricordò la propria figlia Sedik, una bambina piccola, dagli occhi scuri, che gli diceva: — Puoi dividere con me il fazzoletto che uso. — Quel ricordo, che gli era molto caro, ora risultò insopportabilmente doloroso per lui. Per sfuggire a quel peso, sorrise a caso e disse: — Sono allergico al vostro pianeta. Così dice il dottore.

— Santo Dio, non continuerai eternamente a starnutire come adesso? — gli chiese il vecchio Atro, scrutandolo attentamente.

— Non è ancora arrivato il suo addetto? — disse Pae.

— Il mio addetto?

— Il cameriere. Doveva portarle alcune cose. Tra cui i fazzoletti. Quel che le può occorrere per i primi momenti, finché lei andrà a scegliersi quello che più le piace. Niente di lussuoso… anzi, temo che non si possa trovare nulla di lussuoso, tra la roba su misura, per un uomo della sua altezza!


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