Viaggiando in auto o in treno, egli vide paesi, case coloniche, cittadine; fortezze risalenti ai giorni del feudalesimo; le torri in rovina di Ae, antica capitale di un impero, vecchie di quarantaquattro secoli. Vide i campi coltivati, i laghi e le montagne della provincia AEana, cuore dell’A-Io, e, all’orizzonte settentrionale, le cime dei Monti Meitei, bianche e gigantesche. La bellezza della terra e il benessere dei suoi abitanti furono per lui una continua meraviglia. Le sue guide avevano ragione: gli urrasiani sapevano come usare il loro mondo. Gli era stato insegnato da bambino che Urras era una massa in suppurazione di ineguaglianza, iniquità e spreco. Ma tutta la gente che incontrava, e tutta la gente che vedeva, nei minimi paesini di campagna, era ben vestita, ben nutrita, e, contrariamente alle sue previsioni, assai industriosa. Non se ne stava ferma immobile, con lo sguardo torvo, in attesa che qualcuno le desse l’ordine di fare una certa cosa. Esattamente come gli anarresiani, si dava da fare, semplicemente, per fare ciò che andava fatto. La cosa lo rese perplesso. Egli aveva dato per certo che se aveste tolto a un essere umano il suo incentivo naturale verso il lavoro — la sua iniziativa, la sua spontanea energia creativa — e la aveste sostituita con una motivazione e una coercizione esterna, ne avreste fatto un lavoratore pigro e trascurato. Ma non erano certo dei lavoratori trascurati coloro che accudivano a quei bellissimi campi, o costruivano quelle auto superbe e quei treni comodissimi. Il richiamo e la pressione del profitto erano evidentemente, come sostituto dell’iniziativa naturale, assai più efficaci di quanto non avesse creduto.

Gli sarebbe piaciuto parlare con qualcuno di quei robusti, dignitosi individui ch’egli scorgeva nelle piccole città, per chiedere loro, per esempio, se ritenevano di essere poveri; poiché, se quelli erano i poveri, egli avrebbe dovuto cambiare il significato che aveva sempre attribuito alla parola. Ma pareva che non ce ne fosse mai il tempo, con tutto ciò che le sue guide desideravano mostrargli.

Le altre grandi città dell’A-Io erano troppo distanti per poterle raggiungere in una sola giornata di viaggio, ma egli venne condotto a Nio Esseia, a cinquanta chilometri dall’Università, varie volte. E laggiù venne tenuta in suo onore tutta una serie di ricevimenti. Egli non li apprezzò molto, poiché non corrispondevano affatto alla sua idea di una festa. Tutti erano molto educati e parlavano molto, ma non di cose interessanti; e sorridevano così tanto da parere ansiosi. Ma i loro abiti erano sgargianti, e in verità pareva che tutta la spensieratezza che mancava nel loro comportamento venisse messa nei vestiti, nel cibo, in tutte le diverse cose che bevevano, e nel mobilio e nella decorazione sovrabbondante dei palazzi, in cui si tenevano i ricevimenti.

Gli vennero mostrate le bellezze di Nio Esseia, città di cinque milioni di abitanti… un quarto della popolazione del suo pianeta natale. Lo portarono nella piazza del Campidoglio e gli mostrarono le alte porte bronzee del Direttorato, sede del Governo di A-Io; gli fu concesso di assistere a un dibattito nel Senato e a una riunione di un comitato di Direttori. Lo portarono allo Zoo, al Museo Nazionale, al Museo della Scienza e delle Industrie. Lo portarono in una scuola, dove affascinanti bambini in uniforme bianca e turchina cantarono per lui l’inno nazionale dell’A-Io. Gli fecero visitare una fabbrica di componenti elettroniche, un’acciaieria completamente automatizzata, e un impianto a fusione nucleare, in modo ch’egli potesse vedere con quale efficienza conduceva le proprie industrie energetiche e manufatturiere un’economia proprietaristica. Gli mostrarono un nuovo quartiere residenziale finanziato dal governo, in modo che egli potesse vedere come lo stato pensava al popolo. Lo accompagnarono in un viaggio su battello lungo l’estuario del Sua, affollato dei commerci marittimi di tutto il pianeta, fino al mare. Lo portarono all’Alta Corte di Giustizia, ed egli trascorse un’intera giornata ad ascoltare procedimenti civili e penali, esperienza che lo lasciò stupito e incredulo; ma gli altri ripetevano che doveva vedere ciò che era da vedere, e che doveva venire accompagnato dovunque chiedesse di andare. Quando chiese, con una certa diffidenza, se poteva vedere il luogo dove era sepolta Odo, lo portarono immediatamente al vecchio cimitero nel distretto Trans-Sua. Permisero perfino ad alcuni giornalisti dei quotidiani indecorosi di fotografarlo fermo nell’ombra dei grandi, antichi salici, intento a fissare la tomba disadorna e ben tenuta:

Laia Asieo Odo
698-769
Essere intero è essere parte;
vero viaggio è il ritorno.

Venne portato a Rodarred, sede del Concilio dei Governi Mondiali, per rivolgere un indirizzo di saluto al consiglio plenario di quell’organismo. Egli aveva sperato di poter finalmente conoscere, o almeno vedere, laggiù gli stranieri, gli ambasciatori di Terra o di Hain, ma la lista degli incontri era già troppo fitta per permetterlo. Egli aveva lavorato con molto impegno al proprio discorso, una perorazione a favore della libera comunicazione e del mutuo riconoscimento tra il Nuovo e il Vecchio Pianeta. Il discorso venne raccolto da un’ovazione in piedi, durata dieci minuti. I rispettabili settimanali commentarono con approvazione il discorso, chiamandolo un «gesto morale disinteressato di umana fratellanza compiuto da un grande scienziato», ma non ne citarono alcun brano, né ne citarono i quotidiani popolari. In realtà, nonostante la lunga ovazione, Shevek aveva la curiosa impressione che nessuno l’avesse ascoltato.

Gli vennero fatti molti onori e venne condotto in molti luoghi: il Laboratorio di Ricerca sulle Onde Luminose, gli Archivi Nazionali, i Laboratori di Tecnologie Nucleari, la Libreria Nazionale di Nio, l’Acceleratore di Meafed, la Fondazione per le Ricerche Spaziali di Nio. Anche se tutto ciò che vedeva su Urras gli destava il desiderio di vedere ancora, alcune settimane di vita da turista erano sufficienti: ogni cosa era così affascinante, stupefacente, meravigliosa, da divenire, alla fine, quasi oppressiva. Shevek desiderava potersi sistemare all’Università per lavorare e ripensare a ciò che aveva visto. Ma come ultima cosa chiese di vedere la Fondazione per le Ricerche Spaziali. Pae sembrò molto compiaciuto quando gli rivolse la richiesta.

Molto di ciò che aveva visto negli ultimi tempi gli aveva ispirato un reverente timore poiché era così vecchio: vecchio di secoli, perfino di millenni. La Fondazione, invece, era nuovissima: costruita negli ultimi dieci anni, nello stile elegante, sovrabbondante del momento. Un’architettura spettacolare, in cui erano usate grandi macchie di colore e le altezze e le distanze erano esagerate. I laboratori erano chiari e spaziosi, le fabbriche e le officine che li servivano erano ospitate dietro splendidi porticati con archi e colonne in stile neo-setano. Le rimesse delle navi erano immense cupole multicolori, traslucide e fantastiche. Gli uomini che lavoravano nel loro interno, per contrasto, erano invece assai tranquilli e posati. Sottrassero Shevek alle attenzioni delle sue scorte abituali e gli mostrarono l’intera Fondazione, compreso ogni stadio del sistema sperimentale di propulsione interstellare su cui stavano lavorando, dai calcolatori elettronici e dai tavoli da disegno, fino a una nave per metà completa, che appariva enorme, surreale sotto le luci arancione, viola, gialle, all’interno della vasta cupola geodetica.

— Avete così tanto — disse Shevek all’ingegnere che lo accompagnava, un uomo chiamato Oegeo. — Avete così tanto con cui lavorare; e lavorate così bene. È tutto magnifico: la coordinazione, la cooperazione, la grandezza dell’impresa.

— Non potete fare niente su una scala come questa, eh, al suo paese? — disse l’ingegnere, sorridendo.


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