Si era comportato male. Doveva comportarsi bene. E così fece.

Si proibì la fisica cinque sere su dieci. Si offrì per il lavoro di comitato nell’amministrazione dei domicili dell’Istituto. Presenziò alle riunioni della Federativa di Fisica e dell’Unione dei Membri dell’Istituto. Si iscrisse a un gruppo che praticava la retroazione biologica e il condizionamento delle onde cerebrali. In refettorio si costrinse ad accomodarsi a tavoli grandi, invece che a piccoli tavoli, con un libro davanti.

Fu una sorpresa: pareva che gli altri fossero lì ad aspettarlo. Lo prendevano con sé, gli davano il benvenuto, lo invitavano a dividere il letto e l’allegria. Lo portarono in giro con loro, e in tre decadi egli imparò più cose su Abbenay di quante non ne avesse imparate in un anno. Si recò con gruppi di persone giovani e allegre in campi sportivi, centri artistici, piscine, feste, musei, teatri, concerti.

I concerti: furono una rivelazione, una scossa di gioia.

Non si era mai recato a un concerto ad Abbenay, in parte perché pensava alla musica come a qualcosa che si fa, piuttosto che qualcosa che si ascolta. Da bambino aveva sempre cantato, o suonato uno strumento, nei cori e nei complessi locali; l’esperienza gli era sempre piaciuta, ma egli non aveva molto talento. E lì si fermavano le sue conoscenze musicali.

I centri di apprendimento insegnavano tutte le tecniche che preparavano alla pratica di una qualsiasi arte: insegnavano canto, metrica, danza, uso della spazzola, dello scalpello, del coltello, del tornio e così via. Tutto in modo pragmatico: i bambini imparavano a vedere, parlare, ascoltare, spostare, maneggiare. Non veniva fatta distinzione tra arte e artigianato; l’arte non veniva considerata come una cosa che avesse un suo posto nella vita, ma come una tecnica fondamentale della vita, come ad esempio la parola. In questo modo l’architettura aveva prodotto, fin dall’inizio, spontaneamente, uno stile coerente, puro e semplice, dalle proporzioni sottili. La pittura e la scultura servivano prevalentemente come elementi dell’architettura e della pianificazione urbana. Per quanto riguardava le arti delle parole, poesia e narrativa tendevano ad essere effimere, legate al canto e alla danza; solo il teatro risaltava con un posto tutto suo, e solo il teatro veniva chiamato «l’Arte», qualcosa di completo in se stesso. C’erano molti gruppi teatrali regionali e itineranti di attori e danzatori, gruppi di repertorio, spesso con il loro drammaturgo fisso. Recitavano tragedie, commedie su canovaccio, mimi. Erano accolti con la felicità con cui si accoglieva la pioggia nelle solitarie cittadine del deserto, erano l’evento dell’anno dovunque giungevano. Capace di racchiudere l’isolamento e la comunalità dello spirito anarresiano, e nato da essi, il teatro drammatico aveva raggiunto una forza e una luminosità straordinarie.

Shevek, tuttavia, non era molto sensibile al teatro. Gli piaceva lo splendore verbale, ma l’intera idea della recitazione non gli era molto congeniale. Soltanto in quel secondo anno ad Abbenay finalmente scoprì la sua Arte: l’arte che si fa usando come materiale il tempo. Qualcuno lo condusse a un concerto all’Unione Musicale. La sera successiva, egli vi ritornò. Si recò a tutti i concerti: con i suoi nuovi amici, se possibile, o anche da solo, all’occasione. La musica era un bisogno più pressante, una soddisfazione più profonda, dello stare insieme con altri.

I suoi sforzi per uscire dalla reclusione essenziale costituivano, in realtà, un insuccesso, ed egli lo sapeva. Non si fece alcun amico. Copulò con alcune ragazze, ma la copulazione non era la gioia che sarebbe dovuta essere. Era la semplice soddisfazione di un bisogno, come l’evacuazione, ed egli in seguito ne provava vergogna, poiché implicava il fatto di usare un’altra persona come un oggetto. La masturbazione era preferibile, ed era il corso più giusto per un uomo come lui. La solitudine era il suo destino; era intrappolato nella sua stessa eredità genetica. Lei l’aveva detto: «Il lavoro viene per primo.» Rulag l’aveva detto con calma, come per asserire una realtà di fatto, impotente a cambiarla, a uscire fuori della propria gelida cella. E lo stesso valeva per lui. Il suo cuore anelava verso di loro, le anime giovani e gentili che lo chiamavano fratello, ma egli non poteva raggiungerle, né esse potevano raggiungere lui. Era nato per essere solo, un maledetto, freddo intellettuale, un egoista.

Il lavoro veniva per primo, ma non portava a nulla. Come il sesso, sarebbe dovuto essere un piacere, e non lo era. Egli continuava a macinare gli stessi problemi, senza avvicinarsi di un passo alla soluzione del Paradosso Temporale di To, per non parlare poi della Teoria della Simultaneità, che l’anno precedente gli era parsa quasi a portata di mano. Quella sicurezza, oggi, gli sembrava incredibile. Si era davvero creduto capace, all’età di vent’anni, di sviluppare una teoria che avrebbe cambiato le fondamenta della fisica cosmologica? Doveva essere stato fuori di sé per vario tempo, prima della febbre, evidentemente. Si iscrisse a due gruppi di lavoro sulle matematiche filosofiche, convincendosi che ne aveva bisogno e rifiutandosi di ammettere che avrebbe potuto dirigere entrambi i corsi con la stessa capacità degli istruttori. Evitò Sabul quanto più poté.

Nella sua prima fiammata di nuovi propositi, si era riproposto di conoscere meglio Garab. La donna reagì come meglio poté, ma l’inverno era stato severo con lei; era malata, e sorda, e vecchia. Diede inizio a un corso primaverile, ma dovette poi lasciarlo. Era imprevedibile, una volta quasi non riconosceva Shevek, l’altra se lo trascinava in domicilio a parlare con lei tutta la sera. Shevek aveva già superato da tempo le posizioni di Garab, e trovava piuttosto faticose le chiacchierate serali. Era costretto a lasciare che Garab lo annoiasse per ore, con cose che egli già sapeva o che aveva dimostrato parzialmente scorrette, oppure doveva addolorarla e confonderla nel tentativo di condurla sulla giusta strada. La cosa era superiore alla pazienza e al tatto di qualsiasi persona della sua età, ed egli finì con l’evitare Garab quando poteva, e sempre con un rimorso di coscienza.

Non c’erano altre persone con cui parlare di lavoro. Nessuno all’Istituto conosceva abbastanza la fisica temporale pura da potersi tenere al suo livello. Gli sarebbe piaciuto insegnarla, ma non gli era ancora stato assegnato un incarico d’insegnamento o un’aula all’Istituto; l’Unione dei Membri degli studenti di facoltà respinse la sua richiesta. Non volevano mettersi in urto con Sabul.

Con il procedere dell’anno, cominciò a spendere un mucchio di tempo scrivendo lettere ad Atro e ad altri fisici e matematici di Urras. Poche di queste lettere vennero spedite. Alcune le scrisse e semplicemente le stracciò. Scoprì che il matematico Loai An, a cui aveva scritto una lettera di sei pagine sulla reversibilità temporale, era morto da venti anni; si era dimenticato di leggere la premessa biografica del libro di An, Geometrie del Tempo. Altre lettere, che egli cercava di far recapitare dai mercantili di Urras, venivano fermate dagli amministratori del Porto di Anarres. Il Porto era sotto il diretto controllo del CDP, poiché le sue operazioni richiedevano il coordinamento di molti gruppi di produzione, e alcuni dei coordinatori conoscevano lo iotico. Questi amministratori del Porto, con le loro conoscenze particolari e con la loro importante posizione, tendevano ad acquisire la mentalità burocratica: dicevano «no», automaticamente. Diffidavano delle lettere ai matematici, poiché parevano messaggi in codice, e nessuno poteva assicurare loro che non si trattasse di messaggi in codice. Le lettere dirette ai fisici venivano passate se Sabul, che era il loro consulente, le approvava. Egli non approvava quelle che si occupavano di argomenti estranei alla sua branca di fisica Sequenziale. «Non rientra nella mia competenza» egli brontolava, restituendo la lettera. Shevek la mandava ugualmente agli amministratori del Porto, e la lettera gli ritornava indietro con la stampigliatura «Non approvata per l’esportazione».


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