— Niente di buono — rispose Shevek, sedendosi sulla predella del letto. — Mi sono messo nel campo sbagliato?

Bedap sorrise con ironia. — Tu?

— Penso che alla fine del trimestre chiederò un altro incarico.

— Che incarico?

— Non so. Insegnamento, ingegneria. Devo togliermi dalla fisica.

Bedap si accomodò sulla sedia della scrivania, si mordicchiò un’unghia, e disse: — Mi pare assurdo.

— Mi sono accorto dei miei limiti.

— Non sapevo che tu ne avessi. Nel campo della fisica, intendo dire. Tu hai sempre avuto ogni sorta di limiti e di difetti. Ma non nella fisica. Io non sono un fisico temporale, lo so. Ma non occorre saper nuotare per riconoscere un pesce, non occorre mandar luce per riconoscere una stella…

Shevek guardò l’amico e fece, o meglio si lasciò scappare, l’affermazione che non era mai stato capace di dire chiaramente a se stesso: — Ho pensato al suicidio. Spesso. Mi pare la cosa migliore.

— Non è certo la strada che ti porterà dall’altra parte della sofferenza.

Shevek sorrise, impacciato. — Ricordi quella conversazione?

— Benissimo. È stata una conversazione molto importante per me. E per Takver e Tirin, penso.

— Davvero? — Shevek si alzò in piedi. Lo spazio in cui passeggiare avanti e indietro si riduceva a quattro passi, ma non poteva rimanere fermo. — Era importante per me, a quell’epoca — disse, fermandosi accanto alla finestra. — Ma qui sono cambiato. C’è qualcosa di sbagliato, qui. Non so che cosa sia.

— Io lo so — disse Bedap. — Il muro. Sei arrivato al muro.

Shevek si voltò, con uno sguardo spaventato negli occhi. — Il muro?

— Nel tuo caso, il muro pare essere Sabul, e i suoi sostenitori nelle unioni scientifiche e nel CDP. Per quanto riguarda me, sono ad Abbenay da quattro decadi. Quaranta giorni. E mi sono stati sufficienti per capire che anche in quarant’anni, qui, non riuscirei a combinare nulla, nulla di nulla, di ciò che desidero fare: migliorare l’istruzione scientifica nei centri d’apprendimento. A meno che le cose non cambino. O che io mi unisca ai nemici.

— Nemici?

— Gli uomini piccini. Gli amici di Sabul! La gente che detiene il potere.

— Ma cosa dici, Bedap! Non abbiamo strutture di potere, qui.

— No? Che cos’è che rende Sabul così forte?

— Non certo una struttura di potere, un governo. Qui non siamo su Urras, dopotutto!

— No. Noi non abbiamo governo e non abbiamo leggi, giusto. Ma per quel che posso vedere, le idee non sono mai state controllate dalle leggi e dal governo, neppure su Urras. Se lo fossero state, come avrebbe potuto, Odo, sviluppare le sue? Come avrebbe potuto, l’Odonianesimo, divenire un movimento mondiale? Gli archisti cercarono di cancellarlo con la forza, ma non ci riuscirono. Non puoi schiacciare le idee cercando di reprimerle. Puoi schiacciarle soltanto ignorandole. Rifiutandoti di pensare, rifiutandoti di cambiare. E questo è precisamente ciò che fa adesso la nostra società! Sabul si serve di te quando può, e quando non può ti impedisce di pubblicare, di insegnare, perfino di lavorare. Giusto? In altre parole, egli ha del potere su di te. E da dove ottiene quel potere? Non da un’autorità investita, non ne esistono. Non dalla superiorità intellettuale, non l’ha. Lo ottiene dalla codardia innata della normale mente umana. La pubblica opinione! Questa è la struttura di potere di cui fa parte, ed egli sa come usarla. L’inconfessato, inconfessabile governo che comanda la società Odoniana soffocando le menti individuali!

Shevek appoggiò le mani al davanzale della finestra, e al di là delle deboli riflessioni del vetro fissò l’oscurità esterna. Infine disse: — Parole folli, Bedap.

— No, fratello, sono perfettamente sano di mente. La cosa che fa impazzire la gente è cercare di vivere al di fuori della realtà. La realtà è terribile. Ti può uccidere. E, a darle abbastanza tempo, finisce certamente per ucciderti. La realtà è dolore… sei stato tu stesso a dirlo! Ma sono le menzogne, l’evasione dalla realtà, a farti impazzire. Sono le bugie: quelle che ti spingono a desiderare di ucciderti.

Shevek si voltò verso di lui e lo fissò. — Ma non puoi parlare seriamente di un governo, qui su Anarres!

— Dalle Definizioni di Tomar: «Governo: l’uso legale del potere per conservare ed estendere il potere.» Basta che tu sostituisca «legale» con «basato sulla consuetudine» e hai subito Sabul, e l’Unione dell’Istruzione e il CDP.

— Il CDP!

— Il CDP è, oggi come oggi, fondamentalmente una burocrazia archistica.

Dopo un istante Shevek rise, ma con poca naturalezza, e disse: — Su, dai, Bedap, è divertente, ma è un discorso un po’ malato, no?

— Shevek, non hai mai pensato che la cosa che viene chiamata «malattia» nel modello analogico, la disaffezione sociale, lo scontento, l’alienazione, potrebbe venire chiamato, analogicamente, dolore… la cosa a cui ti riferivi quando hai parlato del dolore, della sofferenza? E che, come il dolore, riveste una sua funzione nell’organismo?

— No! — disse Shevek, con violenza. — Parlavo in termini personali, spirituali.

— Ma hai parlato della sofferenza fisica, di un uomo che moriva per le bruciature. E io parlo della sofferenza spirituale! Di gente che vede il proprio talento, il proprio lavoro, la propria vita sprecati! Di cervelli di primo piano che si devono sottomettere a cervelli stupidi. Di forza e coraggio strangolati dall’invidia, dalla sete di potere, dalla paura del cambiamento. Il cambiamento è libertà, il cambiamento è vita… c’è forse qualcosa di altrettanto fondamentale per il pensiero Odoniano? Ma ormai non c’è più nulla che cambi! La nostra società è malata. Tu lo sai. Tu stai soffrendo a causa della sua malattia. La sua malattia suicida!

— Basta, Bedap. Piantala!

Bedap non disse altro. Cominciò a rodersi l’unghia del pollice, metodicamente, pensosamente.

Shevek si sedette di nuovo sulla predella del letto e si prese la testa fra le mani. Seguì un lungo silenzio. La neve non cadeva più. Un vento secco, buio, premeva contro la finestra. La stanza era fredda; nessuno dei due giovani si era tolto il soprabito.

— Senti, fratello — disse infine Shevek. — Non è la nostra società a frustrare la creatività individuale. È la povertà di Anarres. Questo pianeta non è fatto per reggere una civiltà. Se ci rilassassimo reciprocamente, se non rinunciassimo ai nostri desideri in vista del bene comune, nulla, nulla di questo mondo spoglio potrebbe salvarci. La solidarietà umana è la nostra unica risorsa.

— La solidarietà, certo! Perfino su Urras, dove il cibo piove a terra dagli alberi, perfino laggiù Odo diceva che la solidarietà umana è la nostra sola speranza. Ma noi abbiamo tradito tale speranza. Abbiamo permesso che la cooperazione divenisse obbedienza. Su Urras hanno il governo da parte di una minoranza. Qui abbiamo il governo della maggioranza. Ma è governo! La coscienza sociale non è più una cosa vivente, ma una macchina, una macchina di potere, controllata da burocrati!

— Io e te potremmo offrirci volontari e venire assegnati dalla lotteria al CDP, nel giro di poche decadi. Questo ci trasformerebbe forse in burocrati, in capi?

— Non si tratta dei singoli individui che vengono assegnati al CDP, Shevek. Molti di loro sono simili a noi. Anzi, fin troppo simili a noi. Bene intenzionati, ingenui. E non è solo il CDP. È ogni cosa di Anarres. Centri di apprendimento, istituti, miniere, macine, pescherie, fabbriche di alimentari, progetti agricoli e stazioni di ricerca, comunità monoprodotto: dovunque la funzione richieda degli esperti e una stabile istituzione. Ma questa stabilità dà spazio all’impulso autoritaristico. Nei giorni iniziali dell’Insediamento ne eravamo coscienti, stavamo sul chi vive. La gente compiva delle discriminazioni molto accurate tra quel che è l’amministrazione di oggetti e il governo di persone. L’hanno fatto talmente bene da farci dimenticare che la volontà di dominio è altrettanto centrale negli esseri umani quanto l’impulso verso l’assistenza reciproca, e deve venire educata in ciascun individuo, in ogni nuova generazione. Nessuno nasce odoniano, come nessuno nasce civilizzato! Ma noi l’abbiamo scordato. Noi non educhiamo alla libertà. L’istruzione, l’attività più importante dell’organismo sociale, è divenuta rigida, moralistica, autoritaria. I bambini imparano a ripetere a memoria le parole di Odo come se fossero legge… la massima bestemmia che si possa immaginare!


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