Bedap e alcuni suoi amici avevano progettato di passare una decade insieme, facendo il giro dei Ne Theras. Egli aveva persuaso Shevek a venire. Shevek amava la prospettiva di dieci giorni sulle montagne, ma non quella di dieci giorni di opinioni di Bedap. La conversazione di Bedap ricordava un po’ troppo le Sedute di Critica, l’attività comune che gli era sempre piaciuta meno, in cui ciascuno si alzava e si lamentava dei difetti di funzionamento della comunità, e, di solito, anche dei difetti del carattere dei vicini. Tanto più s’avvicinava la data della vacanza, tanto meno gliene piaceva l’idea. Ma si ficcò in tasca un quaderno, in modo da poter andar via e pretendere di lavorare, e partì anche lui.

Si incontrarono dietro la stazione dei camion della zona orientale, il mattino presto: tre donne e tre uomini. Shevek non conosceva nessuna delle donne, e Bedap gliene presentò soltanto due. Come si avviarono lungo la strada delle montagne, si portò al fianco della terza. — Shevek — disse.

La donna rispose: — Lo so.

Comprese che doveva già averla incontrata da qualche parte, e che avrebbe dovuto ricordare il suo nome. Le sue orecchie divennero rosse.

— Vuoi scherzare? — fece Bedap, mettendosi alla sua sinistra. — Takver era all’Istituto Settentrionale con noi. Abita ad Abbenay da due anni. Non vi siete più visti da allora?

— L’ho visto un paio di volte — disse la ragazza, e rise, voltandosi verso di lui. Aveva la risata di una persona che ama mangiare bene, una risata larga e infantile. Era alta e piuttosto sottile, con braccia tonde e fianchi ampi. Non era molto bella; aveva volto scuro, intelligente e allegro. Nei suoi occhi c’era un carattere di nero, che non era l’opacità degli occhi scuri e luminosi, ma qualcosa di profondo, che ricordava la cenere nera e spessa, sottile, molto soffice. Shevek, incontrando i suoi occhi, seppe di avere commesso una mancanza imperdonabile nel dimenticarla, e, nello stesso istante, seppe anche di essere stato perdonato. Di essere in fortuna. Che la sua fortuna era cambiata.

Cominciarono a salire sulle montagne.

Nella fredda serata del loro quarto giorno di escursione, egli e Takver sedevano sul ciglio spoglio di una gola. Quaranta metri più in basso, un torrente di montagna scendeva tra le rocce, fra sponde bagnate dagli spruzzi. C’era poca acqua corrente su Anarres; anche l’acqua da tavola era scarsa in molte località; i fiumi erano corti. Solo nelle montagne c’erano acque che scorrevano rapidamente. Il rumore dell’acqua che gridava e picchiettava e cantava era nuovo per loro.

Si erano arrampicati su e giù per simili gole per tutta la giornata, fra le montagne, e avevano male alle gambe. Gli altri del gruppo erano nel Rifugio, una costruzione di pietra eseguita da persone in vacanza per persone in vacanza, ben tenuta; la Federativa dei Ne Theras era il più attivo dei gruppi di volontarii che amministravano e proteggevano le poche zone «panoramiche» di Anarres. Un guardiano antincendi che abitava laggiù nel corso dell’estate aiutava Bedap e gli altri a preparare un pasto con i rifornimenti delle dispense. Takver e Shevek erano usciti, nell’ordine, separatamente, senza dire la loro destinazione e, in realtà, senza saperla.

Egli l’aveva trovata sul ciglio, seduta fra i delicati cespugli di spina di luna, simili a matasse di trina, che crescevano sulle montagne; i rami rigidi e fragili avevano colore argenteo nel crepuscolo. In un varco tra le cime, ad est, la pallida luminosità del cielo annunciava il sorgere della luna. Il ruscello era rumoroso nel silenzio delle montagne alte e spoglie. Non c’era vento, non c’erano nubi. L’aria al di sopra delle montagne era simile ad ametista, dura, chiara, profonda.

Sedevano già da qualche tempo, senza scambiarsi parola.

— Non mi sono mai sentito attratto verso una donna, in tutta la mia vita, come lo sono da te. Fin da quando abbiamo iniziato questa gita. — Il tono di Shevek era freddo, quasi risentito.

— Non intendevo rovinarti la vacanza — rispose lei, con la sua risata larga e infantile, troppo forte per il crepuscolo.

— Non si rovina affatto!

— Ah, bene. Pensavo che volessi dire che ti distraggo.

— Distrarmi! È come un terremoto.

— Grazie.

— Non dipende da te — disse lui, seccamente. — Dipende da me.

— Questo è ciò che credi — rispose.

Ci fu una pausa piuttosto lunga.

— Se desideri copulare — disse lei, — perché non me l’hai chiesto?

— Perché non sono certo che sia la cosa che desidero.

— Neanch’io. — Il suo sorriso era sparito. — Ascolta — disse. La sua voce era morbida, e non aveva molto timbro; aveva la stessa caratteristica soffice dei suoi occhi. — Devo proprio dirtelo. — Ma la cosa che doveva dirgli rimase inespressa per molto tempo. Infine egli la fissò con una tale aria di apprensione e di implorazione che lei si affrettò a dire, tutto d’un fiato: — Ecco, devo dirti che non voglio copulare con te, ora. Né con chiunque altro.

— Hai rinunciato al sesso?

— No! — disse lei, indignata, ma senza spiegazioni.

— Io potrei anche averlo fatto — disse lui, gettando un ciottolo nel ruscello. — Oppure sono diventato impotente. Sarà quasi mezzo anno, e poi era con Bedap. In realtà sarà quasi un anno. Diventava ogni volta meno soddisfacente, e alla fine ho smesso. Non c’era niente. Non ne valeva la pena. Eppure ricordo che so come dovrebbe essere…

— Sì, è così — disse Takver. — Anch’io copulavo molto, per passatempo, fino a diciotto, diciannove anni. Era una cosa emozionante, interessante, piacevole. E poi… non saprei. Come dici tu, diventava insoddisfacente. Non mi interessa il piacere. Il solo piacere, intendo.

— Vuoi bambini?

— Sì, quando sarà il momento.

Egli gettò un altro ciottolo nel ruscello, che ora svaniva nell’ombra della gola, lasciando dietro di sé solamente il suono: un’incessante armonia di suoni disarmonici.

— Io voglio terminare un lavoro.

— E il fatto di essere celibe, ti aiuta?

— C’è un legame. Ma non so quale sia, e non è una connessione di causa ed effetto. All’incirca all’epoca in cui il sesso cominciava a diventarmi insoddisfacente, la stessa cosa mi succedeva per il lavoro. Sempre più. Tre anni senza arrivare a nulla. Sterilità. Sterilità su ogni lato. A perdita d’occhio, un solo deserto arido, bruciato dal calore spietato di un sole senza misericordia, una desolazione senza vita, senza orme, senza scudo e senza copule, qua e là segnata dalle ossa calcinate dei viaggiatori sfortunati…

Takver non rise; emise una risata lamentosa, come se la risata le facesse male. Egli cercò di distinguere chiaramente il suo viso. Dietro la sua testa scura, il cielo era duro e chiaro.

— Che c’è di sbagliato nel piacere, Takver? Perché non lo vuoi?

— Non c’è nulla di sbagliato. E poi, io lo voglio. Solo, non ne ho bisogno. E se prendessi le cose che non mi occorrono, non arriverei mai a prendere quelle che mi occorrono davvero.

— E qual è la cosa che ti occorre?

Ella guardò in basso, facendo scorrere l’unghia sulla superficie di una sporgenza rocciosa. Non disse nulla. Si sporse in avanti per cogliere un rametto di spina di luna, ma non lo raccolse, si limitò a toccarlo, a sentire lo stelo peloso e la foglia delicata. Shevek vide, dalla tensione dei movimenti, che Takver cercava con tutta la forza di trattenere, di frenare una tempesta di emozioni, in modo da poter parlare. E quando parlò, parlò a voce bassa, un po’ bruscamente. — Mi occorre il legame — disse. — Quello vero. Corpo, mente e tutti gli anni della vita. Niente di inferiore.

E alzò lo sguardo su di lui con sfida, forse con odio.

Una gioia stava sorgendo misteriosamente in lui, simile al suono e all’odore dell’acqua corrente che giungevano attraverso l’oscurità. Provava un senso di illimitatezza, di chiarezza, di chiarezza totale, come se fosse stato messo in libertà. Dietro la testa di Takver, il cielo si stava rischiarando con il sorgere della luna; le vette lontane s’innalzavano chiare e argentee. — Sì, è proprio questo — egli disse, privo di imbarazzo, privo del senso di parlare con un’altra persona; diceva ciò che gli veniva in mente, pensoso. — Non me ne ero mai accorto.


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