Ella aveva studiato biologia all’Istituto Regionale Settentrionale, con sufficiente distinzione, cosicché aveva deciso di recarsi all’istituto Centrale per approfondire gli studi. Dopo un anno, le era stato chiesto di unirsi a un nuovo gruppo che stava allestendo un laboratorio per studiare tecniche che permettessero di aumentare e migliorare le riserve di pesce commestibile dei tre oceani di Anarres. Quando la gente le chiedeva che lavoro facesse, ella rispondeva: — Sono una genetista dei pesci. — Il lavoro le piaceva; esso combinava due cose a cui attribuiva molto valore: l’accurata, documentata ricerca, e uno scopo specifico di aumento o miglioramento. Lontana da un simile lavoro, ella non si sarebbe sentita soddisfatta. Ma il lavoro non esauriva i suoi interessi. Gran parte di ciò che passava per la mente e nello spirito di Takver aveva poco a che vedere con la genètica dei pesci.

Il suo interesse per i paesaggi e le creature viventi era appassionato. Questo interesse, che limitativamente si poteva chiamare «amore per la natura», pareva a Shevek qualcosa di assai più ampio che il semplice amore. Ci sono delle anime, egli pensava, il cui cordone ombelicale non è mai stato reciso. Esse non si sono mai svezzate dall’universo. Esse non concepiscono la morte come un nemico; attendono il giorno in cui si disferanno per ritornare nell’humus. Era strano vedere Takver che prendeva una foglia in mano, o anche una pietra. Ella diveniva un’estensione della foglia, e la foglia un’estensione di lei.

Ella mostrò a Shevek le vasche di acqua marina, al laboratorio di ricerca: cinquanta e più specie di pesci, grandi e piccoli, grigi o vivaci, eleganti e grotteschi. Egli ne fu affascinato e anche un po’ intimorito.

I tre oceani di Anarres erano altrettanto pieni di vita quanto la sua terraferma ne era priva. I mari erano isolati tra loro da vari milioni di anni, e le forme di vita avevano seguito processi indipendenti di evoluzione. La loro varietà era stupefacente. Non era mai venuto in mente a Shevek che la vita potesse proliferare così selvaggiamente, in modo così esuberante, che, anzi, forse l’esuberanza fosse la qualità essenziale della vita.

Sulla terraferma, le piante se la cavavano abbastanza bene, nella loro maniera rada e spinosa, ma gli animali che avevano provato a respirare aria avevano rinunciato quasi tutti al progetto quando il clima del pianeta era entrato in un’èra millenaria di polvere e siccità. Sopravvivevano i batteri, dei quali molti erano litofagi, e qualche centinaia di specie di vermi e crostacei.

L’uomo si era inserito con attenzione, e con rischio, in questa ristretta ecologia. Se avesse pescato, ma non troppo avidamente, e se avesse coltivato, usando soprattutto come concime rifiuti organici, si sarebbe potuto inserire. Ma non poteva inserire altro. Non c’era erba per erbivori. Non c’erano erbivori per i carnivori. Non c’erano insetti per fecondare le piante con fiori; gli alberi da frutto importati venivano tutti fertilizzati a mano. Nessun animale venne importato da Urras, per non mettere a repentaglio il delicato equilibrio della vita. Giunsero soltanto i Coloni, e così ben puliti esternamente e internamente che portarono con sé solamente una minima parte della loro fauna e flora personale. Neppure la pulce era riuscita ad arrivare su Anarres.

— Amo la biologia marina — Takver disse a Shevek, davanti alle vasche dei pesci, — perché è così complessa: una vera rete. Questo pesce mangia quel pesce che mangia pesciolini neonati che mangiano ciliati che mangiano batteri e qui ritorni al punto di partenza. Sulla terraferma ci sono soltanto tre gruppi, tutti non-cordati… se non conti l’uomo. È una strana situazione, biologicamente parlando. Noi anarresiani siamo isolati in modo innaturale. Sul Vecchio Pianeta ci sono diciotto gruppi di animali terrestri; ci sono alcune classi, come quella degli insetti, che contengono un numero così ampio di specie che non sono mai state contate tutte, e alcune di queste specie hanno popolazioni di miliardi di individui. Prova a pensarci: dovunque tu guardi, animali, altre creature, che condividono la terra e l’aria con te. Ti potresti sentire tanto più una parte. — Il suo sguardo seguì il movimento di un piccolo pesce azzurrino, entro l’acqua semibuia della vasca. Shevek, attento, seguì la traiettoria del pesce e quella dello sguardo di lei. Rimase fra le vasche per vario tempo, e spesso in seguito ritornò con lei al laboratorio e agli acquari, sottomettendo la sua arroganza di fisico a quelle piccole e strane vite, all’esistenza di esseri per i quali il presente è eterno, esseri che non spiegano se stessi e che non devono neppure giustificare all’uomo le loro vie.

La maggior parte degli anarresiani lavorava da cinque a sette ore al giorno, con da due a quattro giorni di riposo ogni decade. I particolari riguardanti la regolarità, la puntualità, i giorni di riposo e così via venivano decisi, tra l’individuo e la sua squadra di lavoro, o gruppo, o federativa di coordinamento, al livello a cui si raggiungeva meglio la cooperazione e l’efficienza. Takver conduceva da sola i suoi progetti di ricerca, ma il lavoro e i pesci avevano le proprie esigenze indifferibili: ella passava da due a dieci ore al giorno nel laboratorio, senza giorni di riposo. Shevek aveva adesso due incarichi d’insegnamento: un corso di matematica avanzata in un centro di apprendimento, e un altro all’Istituto. Entrambi i corsi erano al mattino, ed egli tornava alla stanza a mezzogiorno. Di solito Takver non era ancora rientrata. L’edificio era silenzioso. La luce del sole non aveva ancora raggiunto la doppia finestra che guardava a sud e ad ovest sulla città e il piano; la stanza era fredda e ombreggiata. Le delicate, concentriche sculture mobili appese a diversi livelli in alto si muovevano con la precisione introversa, il silenzio, il mistero degli organi del corpo e dei processi della mente raziocinante. Shevek si sedeva al tavolo sotto le finestre e cominciava a lavorare, a leggere o prendere appunti e fare calcoli. Gradualmente la luce del sole faceva il suo ingresso, scorreva sui fogli posati sul tavolo, sulle sue mani posate sui fogli, e riempiva la stanza di luminosità. Ed egli lavorava. Le false partenze e le perdite di tempo si rivelarono essere basi, fondamenta, gettate nel buio, ma gettate bene. Su di queste, metodicamente e con attenzione, ma con una destrezza e una sicurezza che non gli pareva qualcosa di suo, bensì una conoscenza che si servisse di lui per operare, che lo usasse come veicolo, egli edificò la magnifica, robusta struttura dei Principi della Simultaneità.

Takver, come ogni uomo o donna che accetta la vicinanza dello spirito creatore, non sempre lo trovava facile. Sebbene la sua esistenza fosse necessaria a Shevek, la sua presenza concreta poteva essere una distrazione. Non voleva tornare a casa troppo presto, poiché egli spesso cessava di lavorare quando lei tornava a casa, e le pareva che questo fosse sbagliato. Più avanti nel tempo, quando sarebbero stati anziani e sazi, egli avrebbe potuto ignorarla, ma a ventiquattr’anni non poteva. Pertanto Takver regolò i suoi compiti in laboratorio in modo da non arrivare a casa fino al pomeriggio avanzato. Ma neanche questo era perfetto, poiché egli aveva bisogno di attenzioni. Nei giorni in cui non aveva lezione, all’ora di arrivo di Takver egli poteva essere a tavolino da sei, otto ore, senza interruzione. Quando si alzava, barcollava dalla stanchezza, gli tremavano le mani e non era del tutto coerente. Il modo con cui lo spirito creatore usa i propri veicoli è assai rude; esso li consuma, poi li scarta e si procura un nuovo modello. Per Takver, invece, non ci potevano essere sostituzioni, e quando vedeva fino a qual punto Shevek fosse usato, ella protestava. Avrebbe potuto gridare, come una volta aveva fatto il marito di Odo, Asieo: «Per l’amor di Dio, donna! Non puoi servire la Verità un poco alla volta?» salvo il particolare che la «donna» era lei, e che non aveva dimestichezza con Dio.


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