— Vuoi sederti, Efor?

— Se lei vuole, signore — rispose l’uomo. Mosse la sedia di mezzo centimetro, ma non si sedette.

— È appunto questa la cosa di cui vorrei parlarti. Sai che non amo darti ordini.

— Cerco fare cose come vuole signore senza fastidio di ordinare.

— Certo… non mi riferivo a questo. Sai, al mio paese nessuno dà ordini.

— Così credo di avere sentito dire, signore.

— Ecco, desidero conoscerti come mio uguale, mio fratello. Tu sei l’unico che io conosca, qui, che non sia ricco… non sia uno dei padroni. Desidero parlare con te, desidero sapere della tua vita…

S’interruppe, disperato, vedendo il disprezzo sul volto rugoso di Efor. Aveva fatto tutti gli errori possibili. Efor l’aveva preso per uno sciocco, un paternalista, un curioso.

Lasciò cadere le mani sul tavolo in segno di disperazione e disse: — Oh, al diavolo, scusami, Efor! Non riesco a dire quello che volevo dire. Ti prego di dimenticarlo.

— Come dice lei, signore. — Efor si ritirò.

Così finiva la cosa. Le «classi non possidenti» rimanevano lontane da lui come quando ne aveva letto nei corsi di storia, all’Istituto Regionale Settentrionale.

Intanto, aveva promesso agli Oiie di passare una settimana con loro, tra gli esami invernali e primaverili.

Oiie l’aveva invitato a cena varie volte, dal giorno della sua prima visita, e sempre in modo rigido, come per obbedire a un dovere d’ospitalità, o forse a un ordine del governo. Nella sua casa, comunque, anche se non abbassava mai la guardia nei riguardi di Shevek, Oiie era sinceramente amichevole. Con la sua seconda visita, i due bambini avevano deciso che Shevek era un vecchio amico, e la loro sicurezza della reazione di Shevek aveva ovviamente messo nell’imbarazzo il padre. Lo rendeva perplesso; egli non poteva realmente approvarla; ma non poteva dire che fosse ingiustificata. Shevek si comportava con loro come un vecchio amico, come un fratello maggiore. Essi lo ammiravano, e il più giovane, Ini, giunse ad amarlo con vera passione. Shevek era gentile, serio, onesto, e raccontava delle bellissime storie sulla Luna; ma c’era anche dell’altro. Egli rappresentava qualcosa, per il bambino, che Ini non sapeva descrivere. Anche molto più tardi nella sua vita, che venne profondamente e oscuramente influenzata da quel fascino infantile, Ini non trovò parole per esso, ma soltanto parole che conservavano un’eco di quel fascino: la parola viaggiatore, la parola esule.

L’unica forte nevicata dell’inverno cadde quella settimana. Shevek non aveva mai visto una nevicata più alta di un paio di centimetri. La bizzarria, la semplice quantità della tempesta lo esilarò. Lo dilettò il suo eccesso. Era troppo bianca, troppo fredda, silenziosa e indifferente per poter essere definita escrementale anche dal più sincero Odoniano; volerla vedere in modo diverso da una innocente magnificenza sarebbe stata soltanto piccolezza d’animo. Non appena il cielo si schiarì, egli uscì nella neve con i ragazzi, che la amavano esattamente quanto lui. Corsero per l’ampio giardino della casa di Oiie, si gettarono palle di neve, costruirono gallerie, castelli e fortezze di neve.

Sewa Oiie era ferma dietro la finestra, insieme con la cognata Vea, e osservava i bambini, l’uomo e la piccola lontra intenti a giocare. La lontra aveva trovato uno scivolo su una parete del castello di neve e continuava a scivolare giù sulla pancia e a risalire eccitata. Le guance dei ragazzi erano roventi. L’uomo, con i capelli lunghi e disordinati, color sabbia, legati sulla nuca con un cordino e le orecchie rosse per il freddo, eseguiva con energia operazioni di scavo. — Non qui! — Scava qui! — Dov’è la paletta? — Ho del ghiaccio in tasca! — le voci acute dei bambini echeggiavano in continuazione.

— Ecco il nostro forestiero — disse Sewa, sorridendo.

— Il più grande fisico vivente — disse la cognata. — Che buffo.

Quando egli entrò, soffiando e pestando i piedi per togliersi la neve dalle scarpe e respirando con quel fresco, gelido vigore e quel senso di salute che soltanto le persone appena uscite dalla neve posseggono, venne presentato alla cognata. Tese la mano grande e dura, fredda, e abbassò su Vea uno sguardo gentile. — Lei è la sorella di Demaere? — disse. — Sì, gli assomiglia. — E questo commento, che se fosse provenuto da chiunque altro sarebbe parso scipito a Vea, le piacque immensamente. «È un uomo» ella continuò a pensare quel pomeriggio, «un vero uomo. Che cosa avrà mai?»

Vea Doem Oiie era il suo nome, all’uso iotico; suo marito Doem era a capo di un grosso cartello industriale e viaggiava molto, passando all’estero una buona metà dell’anno come rappresentante d’affari del governo. Così venne spiegato a Shevek, mentre egli la osservava. In lei la sottigliezza di Demaere Oiie, il colorito pallido e gli occhi neri e ovali si erano trasformati in bellezza. Il petto, le spalle e le braccia erano tondi, soffici, e molto bianchi. Shevek sedette accanto a lei a tavola per il pranzo. Continuò a fissarle il petto nudo, tenuto sollevato dal corpetto rigido. L’idea di andarsene così seminuda in quella gelida temperatura era bizzarra, ma bizzarra come la neve, e anche i piccoli seni avevano un candore innocente, come la neve. La curva della sua nuca sfumava senza scosse nella curva della testa orgogliosa, rasata, delicata.

È molto attraente, Shevek informò se stesso. È come i letti di qui: soffice. Innaturale, però. Perché parla con tanta affettazione?

Egli si afferrò alla sua voce sottile e ai suoi modi affettati come a una pagliuzza in mezzo all’oceano, e non se ne accorse: non si accorse di affogare. Vea tornava a Nio Esseia col treno della sera: era venuta soltanto a passare il pomeriggio, ed egli non l’avrebbe vista più.

Oiie aveva il raffreddore, Sewa aveva da fare con i bambini. — Shevek, pensa che potrebbe accompagnare Vea alla stazione?

— Santo Dio, Demaere! Non costringere quel poveretto a venirmi a proteggere! Credi che ci siano i lupi per la strada? O pensi che i Mingrad selvaggi faranno un’incursione nell’abitato e mi rapiranno per i loro harem? Mi troveranno sulla soglia dell’ufficio del capostazione, domattina, con una lacrima congelata all’angolo dell’occhio e le minuscole, rigide manine strette a un mazzolino di fiori appassiti? Oh, questo non mi dispiacerebbe! — Sul chiacchiericcio scoppiettante e tintinnante, la risata di Vea s’infranse come un’onda: un’onda cupa, levigata, poderosa, che spazzava via ogni cosa e lasciava vuota la sabbia. Non rideva entro di sé, ma di sé, la risata nera, che spazza via le parole.

Shevek si infilò il cappotto in corridoio e l’attese alla porta. Camminarono in silenzio per un isolato. La neve scricchiolava e si schiacciava sotto i loro piedi.

— Davvero, lei è fin troppo cortese per…

— Per cosa?

— Per un anarchico — disse lei, nella sua voce sottile e strascicata con affettazione (era la stessa intonazione che veniva usata da Pae; e da Oiie quando era all’Università). — È un disappunto. Pensavo che fosse rozzo e pericoloso.

— Lo sono.

Lei lo guardò dalla coda dell’occhio. Aveva in testa uno scialle di colore rosso, legato sulla nuca; i suoi occhi risaltavano neri e luminosi su quel colore vivace e sul biancore della neve che li circondava.

— Ma ora mi accompagna in modo molto pacifico alla stazione, dottor Shevek.

— Shevek — disse lui, in tono blando. — Senza «dottore».

— È questo l’intero suo nome… nome e cognome?

Egli annuì, sorridendo. Si sentiva bene, vigoroso, gli piaceva l’aria luminosa, il calore del cappotto ben fatto che indossava, la bellezza della donna al suo fianco. Né preoccupazioni né pensieri pesanti potevano fare presa su di lui, oggi.

— È vero che ricevete il nome da un calcolatore?

— Sì.

— Che squallore, ricevere il nome da una macchina!

— Perché «squallore»?

— È una cosa così meccanica, così impersonale.


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