— Oh, certo, davvero.

— Sono tutte terribilmente forti, coi muscoli? Mettono gli stivali, hanno grossi piedi piatti, abiti senza forma, e si depilano una volta al mese?

— Non si depilano affatto.

— Non si depilano mai? Da nessuna parte? Oh, Dio! Parliamo d’altro.

— Parliamo di lei. — Appoggiò la schiena al terreno coperto d’erba, abbastanza vicino a Vea da essere avvolto dai profumi naturali e artificiali del suo corpo. — Vorrei sapere, le donne urrasiane sono contente di essere sempre inferiori?

— Inferiori a chi?

— Agli uomini.

— Oh… quello! Che cosa le fa credere che io lo sia?

— Mi pare che ogni cosa fatta dalla vostra società sia fatta da uomini. L’industria, le arti, l’amministrazione, il governò, le decisioni. E per tutta la vita portate il nome del padre e quello del marito. Gli uomini vanno a scuola, e voi non ci andate; sono maschi tutti gli insegnanti, i giudici, la polizia, e il governo, no? Perché lasciate che comandino tutto? Perché non fate ciò che vi pare?

— Ma noi lo facciamo! Le donne fanno esattamente quello che vogliono. E non devono sporcarsi le mani, o infilarsi elmetti di bronzo, o mettersi a gridare da un banco del Direttorato, per ottenerlo.

— Ma che cos’è, quello che fate?

— Come, comandare gli uomini, naturalmente! E lei deve sapere, non c’è nessun pericolo a dirlo, poiché non saranno mai disposti a crederlo. Dicono: «Ah ah, sei proprio divertente, piccola!» e ti danno un buffetto sulla nuca e poi se ne escono a passo dell’oca, pienamente soddisfatti, con tutte le medaglie che tintinnano.

— E voi siete soddisfatte?

— Naturalmente, sì.

— Non ci credo.

— Perché non si accorda con i suoi princìpi. Gli uomini hanno sempre qualche teoria, e le cose devono sempre accordarsi ad essa.

— No, non per qualche teoria, ma perché posso vedere che lei non è contenta. Che lei è inquieta, insoddisfatta, pericolosa.

— Pericolosa! — Vea rise, raggiante. — Che complimento assolutamente meraviglioso! Perché sono pericolosa, Shevek?

— Be’, perché lei sa che agli occhi degli uomini è soltanto una cosa, qualcosa che si possiede, si compra, si vende. E dunque lei pensa soltanto a ingannare il possessore, a vendicarsi…

Lei gli pose deliberatamente la piccola mano sulle labbra. — Silenzio — disse. — So che non intende essere volgare. La perdono. Ma ora basta.

Egli si aggrottò ferocemente di fronte all’ipocrisia, e di fronte alla comprensione che forse poteva averla davvero ferita. Sentiva ancora sulle labbra il breve tocco della sua mano. — Mi spiace! — disse.

— No, no. Come può capire, lei, che viene dalla Luna? E poi, lei è soltanto un uomo… Comunque, le dirò una cosa. Se prendeste una delle vostre «sorelle», lassù sulla Luna, e le deste la possibilità di togliersi gli stivali, e di fare un bagno e un massaggio e una depilazione, e di infilarsi un paio di sandaletti allegri, e di mettersi un gioiello all’ombelico, e del profumo, la cosa le piacerebbe, glielo assicuro. E piacerebbe anche a voi! Oh, come vi piacerebbe! Ma voi non lo fareste mai, voi, povere cose, con le vostre teorie. Tutti fratelli e sorelle, e niente divertimento.

— Ha ragione — disse Shevek. — Niente divertimento. Mai. Su Anarres stiamo tutto il giorno a scavare piombo nelle budella delle miniere, e quando viene la notte, dopo il solito pasto di tre grani di holum cotti in un cucchiaio di acqua di mare, recitiamo antifonicamente i Detti di Odo, fino all’ora di andare a letto. Cosa che facciamo tutti separatamente, e senza sfilarci gli stivali.

La sua conoscenza pratica dello iotico non era sufficiente a permettergli i voli verbali che avrebbe potuto fare nella propria lingua, una di quelle estemporanee fantasticherie che soltanto Takver e Sedik avevano ascoltato con frequenza sufficiente da non badare più ad esse; tuttavia, per quanto fossero zoppe, le sue parole sorpresero Vea. Proruppe la sua risata nera, pesante e spontanea. — Santo Dio, ma lei è anche spiritoso! C’è qualcosa che lei non sia?

— Un venditore — egli rispose.

Lei lo studiò, sorridendo. C’era qualcosa di professionale, da attrice, nella sua posa. Le persone di solito non si osservano con attenzione a brevissima distanza, a meno che non siano madre e bambino piccolo, o dottori con pazienti, o amanti.

Egli si rizzò a sedere. — Vorrei ancora camminare — disse.

Ella allungò la mano perché lui la prendesse e la aiutasse ad alzarsi. Il gesto era indolente e invitante, ma ella disse con una tenerezza incerta nella voce: — Lei è davvero come un fratello… Prenda la mia mano. Poi la lascerò andare!

Passeggiarono lungo i sentieri del grande giardino. Entrarono nel palazzo, conservato come museo degli antichi tempi della regalità, poiché Vea disse che le piaceva guardare i gioielli che conteneva. Ritratti di principi e baroni arroganti li fissavano dalle pareti tappezzate di broccato e dall’alto di caminetti scolpiti. Le stanze erano piene di argento, oro, cristallo, legni rari, tappezzerie e gioielli. Accanto ai cordoni di velluto stavano ferme le guardie. Le loro uniformi nere e scarlatte si sposavano bene agli splendori, ai tendaggi in filo d’oro, alle coperte di piume intessute, ma i loro volti rompevano quell’armonia: erano volti annoiati e stanchi, stanchi di starsene in piedi tutto il giorno, in mezzo a sconosciuti, per svolgere un lavoro inutile. Shevek e Vea giunsero a una teca di vetro nella quale era contenuto il mantello della Regina Teaea, fatto con le pelli conciate di ribelli spellati vivi, che quella donna terribile e spavalda indossava quando andava tra la propria gente flagellata dalla peste a pregare Dio di porre fine alla malattia, quattordici secoli prima. — Mi sembra pergamena — disse Vea, esaminando lo straccio scolorito e macchiato dal tempo esposto nella vetrina. Alzò lo sguardo su Shevek. — Si sente bene?

— Penso che preferirei allontanarmi da questo luogo.

Una volta in giardino, il suo viso riprese colore; ma si guardò alle spalle, in direzione delle mura del palazzo, con odio. — Perché il vostro popolo si tiene stretto alle proprie vergogne? — disse.

— Ma è soltanto storia. Quelle cose non potrebbero più succedere, oggi!

Ella lo condusse a uno spettacolo pomeridiano a teatro, una commedia su giovani persone sposate, piena di battute sulla copulazione in cui la copulazione non veniva mai espressamente citata. Shevek si sforzò di ridere quando rideva Vea. Dopo di questo si recarono in un ristorante del centro, un luogo di incredibile opulenza. Costo del pranzo cento unità. Shevek ne toccò ben poco, avendo mangiato a mezzogiorno, ma cedette alle insistenze di Vea e bevve due o tre bicchieri di vino, che risultò più piacevole di quanto non si fosse aspettato, e che non parve avere effetti deleteri sul suo ragionamento. Non aveva denaro sufficiente a pagare il pranzo, ma Vea non fece alcuna offerta di condividere la spesa, e si limitò a suggerirgli di compilare un assegno, cosa che egli fece. Quindi presero una vettura a nolo per recarsi all’appartamento di Vea; ella gli lasciò anche pagare l’autista. Che Vea, si domandò lui, fosse in realtà una prostituta, quella entità misteriosa? Ma le prostitute, nella descrizione di Odo, erano donne povere, e certo Vea non era povera; il «suo» ricevimento, gli aveva detto, era in corso di allestimento da parte del «suo» cuoco, della «sua» cameriera e del «suo» maggiordomo. Inoltre, gli uomini dell’Università parlavano delle prostitute con disprezzo, dicendo che erano creature oscene, mentre Vea, nonostante il suo continuo adescamento, mostrava una tale sensibilità nei riguardi del linguaggio schietto, sulle questioni relative al sesso, che Shevek controllava le proprie parole, come avrebbe potuto fare, a casa, con un bambino timido di dieci anni. Nel complesso, non sapeva che cosa esattamente fosse Vea.

Le stanze di Vea erano grandi e lussuose, con bellissime viste delle luci di Nio, e arredate completamente di bianco, perfino i tappeti. Ma Shevek stava diventando insensibile al lusso, e inoltre aveva sonno. Gli ospiti non sarebbero giunti ancora per un’ora. Mentre Vea si cambiava gli abiti, egli cadde addormentato in un’ampia, bianca poltrona del soggiorno. La cameriera, posando rumorosamente qualcosa sul tavolo, lo svegliò in tempo per vedere Vea di ritorno, vestita, ora, nell’abito ufficiale che le donne iotiche indossavano la sera, una gonna pieghettata che partiva dalle anche e scendeva fino a terra, lasciando nudo tutto il torso. Nel suo ombelico luccicava un piccolo gioiello, proprio come nelle riprese che egli aveva visto, insieme con Tirin e Bedap, un quarto di secolo prima, all’Istituto Regionale delle Scienze dell’Insediamento del Nord, identico… Semidesto e pienamente eccitato, egli la fissò ad occhi spalancati.


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