Si recò nella stanza da letto, camminando lentamente e con passo leggermente incerto, e si lasciò cadere sul letto senza spogliarsi. Vi giacque con le braccia dietro la testa, di tanto in tanto prevedendo e risolvendo un particolare o l’altro del lavoro che occorreva fare, assorto in un solenne e delizioso stato di ringraziamento, che gradualmente sfumò in una serena fantasticheria, e infine in sonno.

Dormì per dieci ore. Si destò pensando alle equazioni che avrebbero espresso il concetto di intervallo. Si mise a tavolino e cominciò a lavorare su di esse. Quel pomeriggio aveva una lezione, e andò a tenerla; andò a pranzare alla mensa degli Anziani di Facoltà e parlò con i colleghi laggiù incontrati del tempo e della guerra, e degli altri argomenti ch’essi portarono all’attenzione. Se essi notarono qualche cambiamento in lui, egli non se ne accorse, poiché non era realmente consapevole della loro presenza. Tornò alla sua stanza e lavorò.

Gli urrasiani dividevano il giorno in venti ore. Per otto giorni passò da dodici a sedici ore quotidiane alla scrivania, o a passeggiare per la stanza, spesso con i suoi occhi chiari rivolti alla finestra, al cui esterno splendeva la tiepida luce del sole di primavera, e le stelle e la Luna giallastra e calante.

Quando giunse con il vassoio della colazione, Efor lo trovò disteso sul letto, vestito per metà, con gli occhi chiusi, che pronunciava frasi in una lingua straniera. Lo destò. Shevek si svegliò con una scossa convulsa, si alzò e raggiunse faticosamente l’altra stanza, la scrivania, che era perfettamente vuota; fissò il calcolatore, che era stato cancellato, e poi rimase fermo accanto ad esso, come un uomo che è stato colpito alla testa e non se n’è ancora accorto. Efor riuscì a farlo tornare a letto e disse: — Signore, febbre. Chiamo il medico?

— No!

— Ne è sicuro, signore?

— No! Non far entrare nessuno, Efor. Di’ che sono malato.

— Allora andrebbero subito a chiamare il medico. Posso dire che lavora ancora, signore. A loro piace sentirlo dire.

— Chiudi a chiave la porta, quando esci — disse Shevek. Il suo corpo non trasparente l’aveva tradito; era debole per l’esaurimento, e pertanto irritabile e spaventato. Aveva paura di Pae, di Oiie, di una squadra di ricerca della polizia. Ogni cosa da lui letta, udita, semicompresa a proposito della polizia urrasiana, della polizia segreta, gli tornò in mente in modo vivido e terribile, come quando un uomo, ammettendo a se stesso la propria malattia, ricorda ogni parola da lui letta sul cancro. Fissò Efor con la desolazione della febbre.

— Lei può fidarsi di me — disse l’uomo, nel suo modo sommesso, svelto, ambiguo. Portò a Shevek un bicchiere d’acqua e uscì, e la serratura della porta d’ingresso scattò dietro di lui.

Si occupò di Shevek nel corso dei due giorni successivi, con un tatto che era del tutto estraneo al suo addestramento di cameriere personale.

— Avresti dovuto fare il dottore, Efor — gli disse Shevek, quando la sua debolezza divenne un’apatia soltanto fisica, non spiacevole.

— Quel che dice la mia vecchia. Non vuole mai che nessun altro la curi fuori di me quando ha qualcosa. Mi fa: «Tu hai il tocco». E io credo che l’ho davvero.

— E non hai mai lavorato con i malati?

— No. signore. Non voglio neppure metterci piede negli ospedali. Brutto giorno quando mi toccherà morire in una di quelle fogne.

— Gli ospedali? Perché, che hanno?

— Niente, signore, non quelli dove portavano lei se stava peggio — disse Efor, con gentilezza.

— Che tipo di ospedali intendi dire, allora?

— I nostri. Sporchi. Buchi di culo — disse Efor, senza violenza nella voce, descrittivamente. — Vecchi. Morto un figlio in uno. Ci sono buchi per terra, grossi, si vede le travi, capisce? Gli ho detto: «Ma come?». Sa, i topi salgono su dai buchi, ti arrivano nel letto. Mi fanno: «Edificio vecchio, fa da ospedale da seicento anni». Stabilimento della Divina Armonia per i Poveri, si chiama. Un buco di culo, ecco cos’è.

— Ti è morto un bambino in quell’ospedale?

— Sì, signore, mia figlia Laia.

— Di che cosa è morta?

— Valvola del cuore, hanno detto. Non è cresciuta molto. Due anni, aveva, quand’è morta.

— Hai altri figli?

— Nessuno vivo. Nati tre. È stata dura, per la mia vecchia. Ma adesso dice: «Oh, be’, non devo farmi il sangue marcio su di loro, in fin dei conti stanno meglio così!». C’è ancora qualcosa che posso fare per lei, signore? — Il brusco passaggio alla sintassi delle classi superiori fece sobbalzare Shevek; disse con impazienza: — Sì! Continua a raccontare.

Poiché aveva parlato spontaneamente, o poiché non stava bene e occorreva venirgli incontro, questa volta Efor non s’irrigidì. — Pensavo di fare il medico militare, una volta — disse, — ma loro mi hanno preso prima. Di leva. Mi fanno: «Attendente, tu fai l’attendente». E così l’ho fatto. Buona qualifica, attendente. Venuto fuori dall’esercito, subito passato a fare il cameriere personale.

— Avresti potuto imparare a fare il medico, nell’esercito? — chiese Shevek. La conversazione continuò. Era difficile per Shevek seguirla, sia come linguaggio, sia come sostanza. Gli venivano riferite cose di cui non aveva esperienza. Non aveva mai visto un topo, o una caserma, o un manicomio, o un ospizio di mendicità, o un negozio di prestiti su pegno, o un’esecuzione capitale, o un ladro, o una casa d’affitto, o un esattore della pigione, o un uomo che voleva lavorare e non trovava lavoro da compiere, o un bambino morto in un rigagnolo. Tutte queste cose comparivano nei ricordi di Efor come fatti abituali o come abituali orrori. Shevek dovette mettere a prova la propria immaginazione e fare ricorso ad ogni briciola di conoscenza di cui disponeva su Urras, per capirle. Eppure gli erano familiari in un modo diverso da ogni altra cosa da lui finora vista su Urras, ed egli ne sapeva il motivo.

Questa era la Urras che gli era stata mostrata a scuola, su Anarres. Era il mondo da cui i suoi antenati erano fuggiti, preferendo la fame e il deserto e l’esilio senza fine. Questo era il mondo che aveva formato la mente di Odo e l’aveva incarcerata otto volte per averne parlato. Questa era la sofferenza umana in cui affondavano le radici gli ideali della sua società, il terreno da cui scaturiva.

Non era la «Urras reale». La dignità e la bellezza della stanza in cui egli ed Efor si trovavano erano altrettanto reali quanto lo squallore in cui era nato Efor. Per Shevek, il compito di un pensatore non era quello di negare una realtà a spese dell’altra, ma di includere e di collegare. Non era un compito facile.

— Mi sembra di nuovo stanco, signore — disse Efor. — Meglio riposare.

— No, non sono stanco.

Efor lo studiò per un momento. Quando Efor svolgeva funzione di servitore, la sua faccia solcata di rughe, completamente rasata, era totalmente priva di espressione; nel corso della precedente ora, Shevek l’aveva vista passare attraverso straordinari cambiamenti di asprezza, ironia, cinismo e dolore. Al momento la sua espressione era comprensiva benché distaccata.

— Diverso da tutto questo, il posto da dove viene lei, no? — disse Efor.

— Molto diverso.

— Nessuno è mai senza lavoro, lassù.

C’era un debole tono d’ironia, o forse di domanda, nella sua voce.

— No.

— E nessuno ha fame?

— Nessuno ha fame mentre un altro mangia.

— Ah.

— Ma siamo stati affamati. Abbiamo patito a lungo la fame. C’è stata una carestia, devi sapere, otto anni fa. Ho conosciuto una donna, a quell’epoca, che ha ucciso il figlio, perché non aveva latte, e non c’era nient’altro, nient’altro da dargli. Non è tutto… tutto latte e miele su Anarres, Efor.

— Non ne dubito affatto, signore — disse Efor, con uno dei suoi bizzarri ritorni alla forma elegante. Poi disse con una smorfia, mostrando i denti: — Comunque, laggiù non c’è nessuno di loro!


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