I loro occhi si incontrarono.

— Come… come è andata qui? — egli chiese, arrossendo tutto d’un tratto e ovviamente dicendo la frase a caso. Ella sentì l’onda tangibile, l’impeto del suo desiderio. Anch’ella arrossì leggermente, e sorrise. Disse con la sua voce roca: — Oh, come quando ci siamo parlati al telefono.

— Ma è stato sei decadi fa!

— Le cose non cambiano molto, quaggiù.

— È molto bello, qui… le montagne. — Vide negli occhi di Takver l’oscurità delle valli montane. L’acutezza del suo desiderio sessuale aumentò bruscamente, ed egli per un istante ne fu stordito, poi riuscì momentaneamente a superare la crisi e cercò di comandare alla propria erezione di placarsi. — Pensi di voler rimanere qui? — disse.

— Non ne ho voglia — disse lei, con la sua voce strana, scura, roca.

— Il naso ti gocciola ancora — osservò Sedik, con precisione, ma senza particolari connotati emotivi.

— Ringrazia che non c’è altro — disse Shevek. Takver disse: — Sta’ zitta, Sedik, non egoizzare! — Entrambi gli adulti scoppiarono a ridere. Sedik continuò a studiare Shevek.

— La cittadina mi piace, Shevek. La gente è simpatica… sono delle sagome. Ma il lavoro non è gran cosa. È soltanto lavoro di laboratorio all’ospedale. La mancanza di tecnici è quasi superata, e io, presto, potrò andarmene via senza lasciarli nei pasticci. Mi piacerebbe ritornare ad Abbenay, se questa è la cosa a cui pensi. Ti sei fatto dare un nuovo assegnamento?

— Non l’ho chiesto e non ho controllato. Sono stato per la strada per una decade.

— E cosa facevi per la strada?

— Ci viaggiavo sopra, Sedik.

— Ha fatto il giro di mezzo mondo, dal sud, dal deserto, per venire da noi — disse Takver. La bambina sorrise, si sedette più comodamente sulle sue ginocchia, e sbadigliò.

— Hai mangiato, Shevek? Sei stanco? Devo accompagnare a dormire la bambina, stavamo giusto per partire quando hai bussato.

— Dorme già nel dormitorio?

— Fin dall’inizio di questa stagione.

— Avevo già quattro anni — affermò Sedik.

— Devi dire: ho già quattro anni — disse Takver, posandola gentilmente a terra per prendere il cappotto dall’armadio. Sedik rimase ferma, di profilo rispetto a Shevek; era estremamente attenta a lui, e dirigeva a lui le sue osservazioni. — Ma io avevo quattro anni; adesso ne ho più di quattro.

— Una temporalista, come il padre!

— Non puoi avere quattro anni e più di quattro anni nello stesso tempo, vero? — chiese la bambina, avvertendo l’approvazione, e parlando, ora, direttamente a Shevek.

— Oh, sì, certo. E puoi avere quattro anni e quasi cinque nello stesso tempo, anche. — Seduto sulla bassa predella, Shevek poteva tenere la testa allo stesso livello di quella della bambina, in modo ch’ella non dovesse alzare lo sguardo. — Ma dimenticavo che hai quasi cinque anni, vedi. L’ultima volta che ti ho vista, eri poco più di niente.

— Davvero? — Il tono della bambina era civettuolo, Shevek ne era certo.

— Sì. Eri lunga più o meno così. — Allargò le mani, non molto.

— E sapevo già parlare?

— Dicevi wee, e qualche altra cosa.

— Svegliavo tutti nel domicilio, come il bambino di Cheben? — domandò lei, con un sorriso largo, allegro.

— Certamente.

— E quando ho imparato davvero a parlare?

— A circa mezzo anno — disse Takver, — e da allora non hai più chiuso la bocca. Dov’è il cappello, Sedik?

— A scuola. Non mi piace il cappello che porto — informò Shevek.

Accompagnarono la bambina lungo le strade battute dal vento, fino al dormitorio del centro d’apprendimento, e la condussero nella sala comune. Anche questa era un luogo piccolo, sciupato, ma rallegrato da disegni dei bambini, vari bei modellini di bronzo di motori, una scatola di casette giocattolo e di figure di legno dipinte. Sedik diede alla madre il bacio della buona notte, poi si voltò verso Shevek e alzò le braccia; egli si chinò verso di lei; lei lo baciò in modo prosaico ma fermo, e disse: — Buona notte! — Poi si allontanò con la custode notturna, sbadigliando. Udirono ancora la sua voce, e la voce pacata della custode che le diceva di tacere.

— È bellissima, Takver. Bellissima, intelligente, robusta.

— È rovinata, temo.

— No, no. Hai fatto bene, fantasticamente bene… in tempi come questi…

— Non è stata tanto dura, qui, non come nel sud — disse, guardandolo in viso mentre lasciavano il dormitorio. — I bambini avevano da mangiare, qui. Non molto bene, ma abbastanza. Questa comunità può coltivarsi il cibo. E se non c’è niente, ci sono sempre gli arbusti di holum. Puoi raccogliere semi di holum selvatico e pestarli. Nessuno è morto di fame, qui. Ma io ho davvero rovinato Sedik. L’ho allattata fino a tre anni, naturalmente: perché no, visto che non c’era niente di buono con cui svezzarla! Ma lo disapprovavano, alla stazione di ricerca di Rolny. Volevano che la mettessi nel nido a giornata piena. Dicevano che mi comportavo da proprietarista nei riguardi della bambina e non contribuivo con tutte le mie forze allo sforzo sociale in un momento di crisi. E avevano ragione, in realtà. Ma erano così moralisti! Nessuno di loro capiva cosa vuol dire essere soli. Facevano tutti un gruppo, nessuno di loro faceva a sé. Erano le donne a punzecchiarmi perché allattavo ancora. Vere speculatrici del corpo. Rimanevo là perché il cibo era buono… ad assaggiare le alghe per vedere se hanno gusto gradevole, a volte arrivavi a superare una razione normale, anche se avevano gusto di colla… finché non trovarono da sostituirmi con qualcuno più adatto al posto. Allora passai a Nuova Partenza per circa dieci decadi. Era in inverno, due anni fa, quel lungo periodo in cui la posta non arrivò, quando le cose erano così gravi laggiù dove eri tu. A Nuova Partenza ho visto che cercavano qualcuno per una assegnazione qui, e sono venuta. Sedik è rimasta con me nel domicilio fino a questo autunno. Continuo a sentire la sua mancanza. La stanza è così silenziosa.

— Non hai una compagna di stanza?

— Sherut; è molto gentile, ma lavora al turno di notte all’ospedale. Era ora che Sedik se ne andasse, le fa bene abitare con gli altri bambini. Cominciava a diventare timida. È stata molto brava, quando si è trattato di andare laggiù, molto stoica. I bambini sono stoici Piangono se cascano in terra, ma prendono le grandi cose così come vengono, non piagnucolano come tanti adulti.

Si avviarono per la strada a fianco a fianco. Le stelle del cielo autunnale erano comparse: incredibili come numero e come fulgore, tremolanti e quasi ammiccanti a causa della polvere sollevata dal terremoto e dal vento, cosicché l’intero cielo pareva tremare: uno scotimento di schegge di diamante, una scintillazione di luce solare su un mare nero. Sotto quell’inquieto splendore, le montagne erano scure e solide, i tetti spigolosi, la luce delle lampade stradali lieve.

— Quattro anni fa — disse Shevek. — Quattro anni fa, giunsi ad Abbenay, da quel posto degli Altipiani del Sud, come si chiamava? Fonti Rosse. Era una notte come questa, ventosa, con le stelle. L’ho fatta di corsa: ho fatto di corsa tutta la strada da Via dei Piani al domicilio. E tu non c’eri, te n’eri andata. Quattro anni!

— Nel momento stesso in cui ho lasciato Abbenay ho capito di essere stupida ad andare. Carestia o non carestia. Avrei dovuto rifiutare l’assegnazione.

— Non avrebbe fatto molta differenza. Sabul mi aspettava Per dirmi che avevo finito all’Istituto.

— Se ci fossi stata io, non saresti andato a finire nella Polvere.

— Forse no, ma non saremmo riusciti ad avere gli assegnamenti insieme. Per qualche tempo è parso che nulla stesse insieme, vero? Le città del Sudovest… non c’era nessun bambino. E ancora non ce ne sono. Li mandarono al nord, in regioni dove c’era cibo locale, o qualche possibilità di averlo. E gli adulti rimasero per mandare avanti le cave e le fabbriche. È una meraviglia essere riusciti a farcela, tutti noi, no?… Ma, dannazione, adesso voglio fare il mio lavoro per un po’ di tempo!


Перейти на страницу:
Изменить размер шрифта: