— Così, tu stai per, diciamo, morire?

— Oh, sì. — Il gatto fece le fusa quando le dita del mago lo solleticarono dietro l’orecchio.

Il fabbro aveva l’aria imbarazzata. — Quando?

Billet rifletté un momento. — Tra circa sei minuti.

— Oh!

— Non preoccuparti — lo rassicurò l’altro. — A dirti la verità, sto aspettando con impazienza questo momento. Ho sentito dire che è assolutamente indolore.

Dopo averci pensato, il fabbro chiese: — Chi te l’ha detto?

Il mago fece finta di non averlo udito. Fissava il ponte, in cerca di un segnale nella nebbia.

— Senti — gli disse il fabbro. — Faresti meglio a dirmi come si fa ad allevare un mago, capisci, perché dalle nostre parti non c’è un mago e…

— Si aggiusterà tutto da sé — rispose Billet allegro. — La magia mi ha guidato da te e la magia penserà a tutto. Di solito lo fa. Ho udito gridare?

Il fabbro alzò gli occhi al soffitto. Distinse, al di sopra del crepitare della pioggia, il suono di un paio di nuovi polmoni a tutto volume. Il mago sorrise. — Fallo portare quaggiù — disse.

Il gatto si mise seduto e fissò con interesse la larga porta della fucina. Il fabbro andò ai piedi della scala e chiamò eccitato. Allora l’animale saltò giù e attraversò adagio il locale, con un ronron che ricordava il rumore di una sega a nastro.

Una donna alta, dai capelli bianchi, scese la scala, stringendo nelle braccia un fagottino avvolto in una coperta. Il fabbro la sospinse in fretta dove sedeva il mago.

— Ma… — cominciò lei.

— Questo è molto importante — dichiarò il fabbro con aria d’importanza. — Che facciamo adesso, signore?

Il mago sollevò la sua verga. Aveva l’altezza di un uomo ed era spessa come il suo polso, coperta di intagli. Che sembravano cambiare sotto lo sguardo del fabbro, proprio come non volessero che lui vedesse che cosa erano.

— Il bambino deve tenerla — decretò Tamburo Billet. Il fabbro annuì e armeggiò con la coperta fino a estrarne una minuscola manina rosa. La guidò con delicatezza verso il bastone. Che il bimbo afferrò stretto.

— Ma… — obiettò la levatrice.

— Va tutto bene, Nonnina, so quello che faccio. Lei è una strega, signore, non le presti attenzione. Bene, e adesso? — concluse l’uomo.

Il mago restò in silenzio.

— Che cosa facciamo o… — cominciò il fabbro e s’interruppe. Si chinò a guardare il viso del vecchio mago. Billet sorrideva. Chi avrebbe saputo dire perché?

Il fabbro rimise il piccolo nelle braccia dell’agitatissima levatrice. Poi, con la massima precauzione, sciolse le ditina pallide dalla verga.

Questa al tatto dava una sensazione strana, untuosa, come di elettricità statica. Il legno era quasi nero, ma gli intagli erano leggermente più chiari e facevano male agli occhi se si cercava di scoprire che cosa fossero di preciso.

— Sei contento di te stesso? — chiese la levatrice.

— Eh? Oh, sì. Sì, certo, Perché?

La donna scostò un lembo della coperta. Il fabbro guardò giù e deglutì.

— No — bisbigliò. — Lui aveva detto…

— E lui come avrebbe fatto a saperlo? — ribatté lei sprezzante.

— Ma lui ha detto che sarebbe stato un figlio!

— A me non sembra un figlio, amico.

Il fabbro si accasciò sullo sgabello, con la testa nelle mani.

— Che cosa ho fatto? — gemette.

— Hai dato al mondo il suo primo mago femmina — disse la levatrice. — Chi è il furbastro, allora?

— Cosa?

— Stavo parlando alla bimba.

Il gatto bianco faceva le fusa e inarcava la schiena come si stesse strofinando alle gambe di un vecchio amico. Strano, perché lì non c’era nessuno.

— Sono stato uno sciocco — pronunciò una voce con un tono impossibile a udirsi da un orecchio mortale. — Ho dato per scontato che la magia sapesse ciò che faceva.

— FORSE È COSÌ.

— Se solo potessi fare qualcosa…

— NON SI PUÒ TORNARE INDIETRO. NON SI PUÒ TORNARE INDIETRO — disse la voce profonda e greve come il richiudersi delle porte di una cripta.

La manciata di nulla che era diventato Tamburo Billet rimase per un po’ a pensare.

— Ma lei avrà un sacco di problemi.

— È A QUESTO CHE SI RIDUCE LA VITA. COSI MI DICONO. IO NATURALMENTE NON SAPREI.

— E la reincarnazione?

La Morte esitò.

— NON TI PIACEREBBE — disse. — CREDI A ME.

— Ho sentito che certe persone lo fanno sempre.

— BISOGNA ESSERCI ALLENATI. BISOGNA COMINCIARE PICCOLO E CRESCERE VIA VIA. NON MAI IDEA DI COME SIA ORRIBILE ESSERE UNA FORMICA.

— È tanto brutto?

— NON CI CREDERESTI. E CON IL TUO KARMA È TROPPO SPERARE DI ESSERE UNA FORMICA.

La piccola era stata riportata a sua madre e il fabbro sedeva sconsolato a fissare la pioggia.

Tamburo Billet grattava il gatto dietro l’orecchio e intanto pensava alla propria vita. Era stata una vita lunga (questo era uno dei vantaggi dell’essere un mago) e lui aveva fatto parecchie cose di cui non andava troppo fiero. Era ormai tempo che…

— NON HO TUTTO IL GIORNO A DISPOSIZIONE, SAI — disse la Morte in tono di rimprovero.

Il mago abbassò gli occhi sul gatto e si rese conto per la prima volta di quanto ora sembrasse strano.

I vivi spesso non comprendono quanto il mondo sembri complicato quando uno è morto. Perché, mentre la morte libera la mente dalla costrizione delle tre dimensioni, la taglia anche fuori dal Tempo, che è soltanto un’altra dimensione. Così, mentre il gatto che si strofinava alle sue gambe invisibili era senza dubbio lo stesso gatto che lui aveva visto pochi minuti prima, adesso era anche con grande chiarezza un micino appena nato e una vecchia gattona grassa e mezza cieca, compresi tutti gli stadi intermedi. Tutto nello stesso tempo. In principio, quando era minuscolo, sembrava una carota bianca a forma di gatto. Descrizione, questa, di cui ci dobbiamo accontentare finché non si inventeranno gli aggettivi quadridimensionali adatti.

La mano scheletrica della Morte batté gentilmente il mago sulla spalla.

— VIENI VIA, FIGLIO MIO.

— Non c’è niente che io possa fare?

— LA VITA È FATTA PER I VIVI. COMUNQUE, LE HAI DATO LA TUA VERGA.

— Già. C’è quella.

La levatrice si chiamava Nonnina Weatherwax. Era una strega. Fatto più che accettato nelle Ramtop Mountains, e nessuno diceva male delle streghe. Almeno, fintantoché desiderava risvegliarsi al mattino con lo stesso aspetto di quando era andato a letto.

Quando la donna scese dabbasso, trovò il fabbro che fissava ancora la pioggia con aria cupa. Gli batté una mano nodosa sulla spalla. Lui alzò gli occhi a guardarla.

— Che devo fare, Nonnina? — domandò, senza riuscire a evitare il tono lamentoso.

— Cosa ne hai fatto del mago?

— L’ho portato fuori nella legnaia. Ho fatto bene?

— Per adesso basterà. Ora devi bruciare la verga.

Entrambi si voltarono a guardare il pesante bastone che il fabbro aveva appoggiato nell’angolo più oscuro della fucina. Sembrava quasi che l’oggetto ricambiasse lo sguardo.

— Ma è magica — bisbigliò l’uomo.

— Allora?

— Brucerà?

— Mai saputo che il legno non bruci.

— Non sembra giusto.

Nonnina Weatherwax chiuse le grandi porte e si girò verso di lui in collera.

— Adesso stammi a sentire. Gordo! Nemmeno le femmine maghi sono giuste! È il genere di magia sbagliata per le donne, quella dei maghi, tutta libri e stelle e giommetria. Lei non ce la farebbe. Chi ha mai sentito di un mago femmina?

— Ci sono le streghe — obiettò il fabbro incerto. — E le incantatrici, anche, ho sentito.

— Le streghe sono tutta un’altra cosa — sbuffò Nonnina Weatherwax. — La loro è una magia che viene dalla terra, non dal cielo, e gli uomini non ci hanno mai capito niente. Quanto alle incantatrici — aggiunse — sono come sono. Dammi retta, brucia la verga, seppellisci il corpo e non farne mai parola con nessuno.

Il fabbro annuì a malincuore, si avvicinò alla fucina e si diede da fare con il mantice finché non sprizzarono le scintille, poi andò a prendere la verga.


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