Spaventato, atterrito, andò alla porta d’ingresso, la spalancò, uscì prima che la cosa potesse continuare a parlare. La calda luce del sole al tramonto brillava cruda sulle pietre, i posti macchina, le automobili, i muri, i dondoli, le antenne televisive. Lui restò lì, tremando, muovendo la mascella: la cosa cercava di aprirgli a forza la bocca e di parlare ancora. Lui non si dominò più e corse via.
A destra, lungo Oak Valley Road, a sinistra su Pine View Place, di nuovo a destra… non sapeva, non riusciva a leggere le targhe. Non correva spesso, e neppure con facilità. I suoi piedi battevano a tonfi pesanti sul terreno. Automobili, posti macchina, case, tutto confuso in una cecità martellante e luminosa che, mentre lui correva, si arrossava e si oscurava. Dietro i suoi occhi c’erano parole che dicevano: Stai esaurendo la luce del giorno. L’aria penetrava nella sua gola e nei suoi polmoni, acre e bruciante, il suo respiro aveva il suono della carta lacerata. L’oscurità si coagulava come sangue. Gli scossoni dei suoi passi diventarono ancora più violenti: e lui stava correndo, in discesa. Cercò di fermarsi, di rallentare, mentre sentiva il mondo sdrucciolare e disgregarsi sotto i suoi piedi, e tanti tocchi lievi che gli sfioravano il volto. Vedeva (o ne sentiva l’odore) foglie, foglie scure, rami, terriccio, sfagno, e attraverso il martellare del cuore e del respiro udiva una musica sonora, incessante. Mosse qualche passo malfermo, strascicato, cadde in avanti sulle mani e sulle ginocchia, e poi giù, bocconi, lungo disteso sulla terra e sulle pietre, in riva all’acqua corrente.
Quando, finalmente, si sollevò a sedere, non ebbe la sensazione di aver dormito; e tuttavia era come destarsi, destarsi da un sonno profondo nel silenzio, quando l’identità appartiene interamente all’identità e nulla può smuoverla fino a quando ci si sveglia un poco di più. Alla radice della quiete c’era la musica dell’acqua. Fino a che la sua mano scivolò sulla pietra. Mentre si sollevava a sedere sentì l’aria che gli penetrava agevolmente nei polmoni, un’aria fresca che odorava di terra e di foglie imputridite e di foglie appena spuntate, e di tutte le specie diverse di erbe e di piante e di arbusti e di alberi, l’odore freddo dell’acqua, il sentore scuro del suolo, un aroma dolce e pungente che gli era familiare sebbene non sapesse dargli un nome, e tutti gli erano frammisti e tuttavia distinti, come i fili di un tessuto, e dimostravano che la parte olfattiva del suo cervello era viva e immensa, e aveva la possibilità di concedere lo spazio, se non il nome, a ogni profumo, aroma, sentore e lezzo che formavano quell’immenso, scuro, profondamente strano e familiare odore d’una riva di fiume nella tarda sera d’estate, in campagna.
Perché era in campagna. Non sapeva immaginare fin dove fosse giunto nella sua corsa, non aveva idea di quanto fosse lungo un miglio; ma sapeva che la sua corsa l’aveva portato lontano dalle vie, lontano dalle case, lontano dall’orlo del mondo lastricato e asfaltato, sul terriccio. Scuro, un po’ umido, irregolare, e complesso, incredibilmente complesso… muovendo un dito, toccò granelli di sabbia e di humus, foglie putrefatte, ciottoli, una pietra più grossa, semisepolta, radici. Era rimasto a giacere con il volto contro quel terriccio, in quel terriccio. La testa gli girava un po’. Trasse un respiro profondo e premette le mani aperte sul terreno.
Non era ancora buio. I suoi occhi si erano assuefatti, e poteva vedere chiaramente, sebbene i colori più scuri e tutti i punti in ombra fossero prossimi al limitare della notte. Il cielo, tra i rami neri che spiccavano nitidi sopra la sua testa, era incolore, e non c’erano variazioni di luminosità a indicare dove era tramontato il sole. Le stelle non erano ancora spuntate. Il fiumicello, largo sei, nove metri e cosparso di macigni, sembrava un frammento più vivace del cielo, e luccicava e scintillava girando intorno alle rocce. Le rive sabbiose e scoperte, sui due lati, erano chiare; solo più a valle, dove gli alberi crescevano più fitti, il crepuscolo si addensava, confondendo i dettagli.
Si ripulì il viso e i capelli dalla sabbia e dalle foglie morte e dalle ragnatele, e sentì sotto un occhio la lieve trafittura d’un taglietto causato da un ramo. Si sporse in avanti, puntellandosi su un gomito, intento, e toccò l’acqua del fiumicello con le dita della mano sinistra: dapprima molto leggermente, con la mano piatta, come se sfiorasse la pelle di un animale; poi la immerse nell’acqua, e sentì la muscolatura della corrente premergli contro il palmo. Poi si sporse ancora di più, abbassò la testa e, appoggiandosi con le mani nell’acqua poco profonda, al bordo della sabbia, bevve.
L’acqua era fredda e aveva il sapore del cielo.
Hugh rimase accovacciato sulla sabbia un po’ fangosa, ancora a testa china, con il sapore che non era un sapore sulle labbra e nella bocca. Lentamente, raddrizzò la schiena fino a quando fu in ginocchio, con la testa eretta, le mani sulle ginocchia, immoto. Ciò che la sua mente non sapeva descrivere a parole, il suo corpo lo comprendeva interamente, agevolmente, e lo apprezzava.
Quando quell’intensità che lui interpretava come una preghiera si attenuò, defluì e si dissolse nuovamente in un vigile, molteplice piacere, Hugh sedette sui talloni, guardandosi intorno più attentamente e metodicamente di quanto avesse fatto in un primo momento.
Dove fosse il nord era impossibile dirlo, sotto quel cielo egualmente incolore; ma lui era certo che i sobborghi, la superstrada e la città fossero direttamente alle sue spalle. Il sentiero che aveva percorso sfociava lì, tra un grosso pino dalla corteccia rossiccia e una massa di alti arbusti dalle grandi foglie. Più indietro, il sentiero proseguiva, scosceso, e si smarriva nella densa semioscurità, sotto gli alberi.
Il fiumicello scorreva direttamente attraverso l’asse del sentiero, da destra a sinistra. Hugh poteva vedere per un lungo tratto, verso monte, lungo la riva opposta che si snodava tra gli alberi e i macigni e cominciava a salire rispetto al livello dell’acqua. Verso valle, i boschi sprofondavano in un’oscurità crescente, interrotta soltanto dallo sfuggente luccichio del fiumicello. Sulla riva, ai due Iati, molto vicino, gli argini salivano e poi si spianavano in una radura priva d’alberi, quasi un praticello, erboso e inframmezzato da arbusti e cespugli.
L’odore familiare al quale non sapeva dare un nome era divenuto più intenso, e la sua mano l’aveva assorbito… menta, ecco che cos’era. Il tratto d’erba, sull’orlo dell’acqua, dove lui aveva appoggiato le mani, doveva essere menta selvatica. Staccò una foglia e la fiutò, poi l’addentò, immaginando che fosse dolce come una caramella alla menta. Era pungente, un po’ pelosa, fredda e carica del sapore della terra.
È un bel posto, pensò Hugh. E ci sono arrivato. Finalmente sono arrivato in qualche posto. Ce l’ho fatta.
Alle sue spalle, la cena nel forno, con il contaminuti regolato, e il televisore che parlava a una stanza vuota. La porta d’ingresso non era chiusa a chiave. Forse era addirittura spalancata. Per quanto tempo?
E la mamma che sarebbe tornata a casa alle dieci.
Dove sei stato, Hugh? Fuori, a fare una passeggiata. Ma non eri a casa quando sono arrivata a casa io lo sai quanto ci tengo Sì sono arrivato più tardi di quanto immaginassi scusami Ma tu non eri a casa…
Era già in piedi. Ma aveva la foglia di menta in bocca, le mani erano umide, la camicia e i jeans erano impiastricciati di foglie e di sabbia fangosa, e il suo cuore non era turbato. Ho trovato il posto, e quindi potrò ritornarci, si disse.
Restò immobile ancora per un minuto, ad ascoltare il mormorio dell’acqua sulle pietre e a guardare i rami immobili contro il cielo serotino; e poi si avviò per tornare indietro, lungo lo stesso percorso da cui era arrivato, su per il sentiero fra gli alti arbusti e il pino. Il sentiero era scosceso e buio, all’inizio; poi divenne pianeggiante, fra i boschi radi. Era facile seguirlo, anche se le braccia spinose delle piante di more lo fecero incespicare un paio di volte, nell’oscurità che si infittiva rapidamente. Un vecchio fosso, invaso dall’erba, poco più di un corrugamento o una grinza nel terreno, segnava il limitare del bosco; più oltre c’erano i campi. E al di là dei campi, in lontananza, c’erano i rapidi, bizzarri guizzi luminosi dei fari delle macchine, sulla superstrada. Sulla destra c’erano luci stazionarie. Hugh si avviò in quella direzione, attraverso i campi d’erba arida e di zolle dure, e finalmente arrivò su un’altura, sulla quale correva una strada di ghiaia. C’era un grande edificio illuminato, sulla sinistra presso la superstrada; più avanti, nell’altra direzione, c’erano due fattorie, o almeno sembrava. Nell’aia d’una fattoria c’era un riflettore, e Hugh si avviò da quella parte, sentendosi sicuro che era di là che doveva andare: lungo quella strada che passava tra le fattorie. Al di là dei cimiteri delle macchine e dei cani che abbaiavano c’era un tratto buio di filari d’alberi, e poi il primo lampione, l’estremità di Chelsea Gardens Place, che portava a Chelsea Garden Avenue, e poi nel cuore del quartiere residenziale. Hugh seguì il ricordo inconscio della direzione che aveva percorso correndo, e via dopo via ritornò infallibilmente a Kensington Heights, a Pine View Place, a Oak Valley Road, e alla porta del numero 14067 1/2 — C Oak Valley Road: che era chiusa.