— Nobile Horn — disse, — quando sono qui, io parlo la lingua del luogo. — L’intruso e la ragazza dal viso di madonna sdolcinata sgranarono gli occhi, e il Padrone divenne vigile come un falco, e Irene lo comprese dal movimento della testa; ma Horn non disse nulla; guardò, lentamente come sempre, il Padrone. Vi fu un silenzio strano, difficile da sopportare.

— Lui non sa parlare la nostra lingua — disse il vecchio. — Ci aiuterai tu?

Il Padrone non si mosse. La gravità del vecchio nobile era impressionante. Svogliatamente, sgarbatamente, Irene si voltò verso l’intruso; non guardò lui, ma il pavimento lucido davanti ai suoi piedi… scarpe da tennis, larghe, lunghe e sporche. — Vogliono che traduca per te. Continua.

— So che non ti va che io sia qui — disse la voce del giovane. — Questo non è il mio posto, credo. Non so. Mi chiamo Hugh Rogers. Se gli riferisci quello che dico, di’ loro che li ringrazio. Sono stati molto buoni con me.

Quando la voce s’interruppe, Irene la sentì incrinarsi.

— Dice che è capitato qui per errore — disse, volgendosi verso il Nobile Horn, ma senza alzare lo sguardo. — Desidera ringraziarvi per la vostra bontà. — Mantenne un tono neutro, da macchina.

— Per noi è il benvenuto, tre volte benvenuto.

— Ha detto che sei il benvenuto — disse Irene in inglese, con voce inespressiva.

— Chi è? Non conosco neppure i loro nomi. Tu sei Rayna?

Quelle parole la sbilanciarono per un momento. L’avrebbe chiamata Irene. Nessuno, tranne sua madre e la gente della Città della Montagna, la chiamava Irena. Ma lui aveva sentito il nome dagli altri, naturalmente. Comunque, la cosa non lo riguardava. — Quello è Aur Horn… il Nobile Horn. Quello è Dou Sark, il Padrone Sark, il Padrone di Tembreabrezi. E quella è la figlia di Horn. Non so il suo nome.

— Allia — disse inaspettatamente la ragazza, con un’affettazione vezzosa, rivolgendosi non a Irene ma a Hugh Rogers. Il giovane girò lo sguardo intimidito verso di lei, poi di nuovo verso Irene.

— Credo che mi abbiano scambiato per qualcuno che non sono — disse.

Irene non lo aiutò.

— Puoi dirgli che questo non è il mio posto… che vengo da… lo sai, da un altro luogo, e che c’è un equivoco.

— Posso dirlo. Ma non cambierà niente.

Il suo disprezzo lo aveva punto, finalmente. Il giovane raddrizzò le spalle aggobbite e aggrottò la fronte. — Senti — le disse, — quando sono arrivato qui, sembrava che mi aspettassero. Si comportano come se sapessero chi sono. Ma io non li conosco, e non riesco a fargli capire che mi hanno confuso con qualcun altro.

— Tu non sai chi sei, qui.

— Loro non lo sanno, io sì — disse il giovane, con inaspettata fermezza.

— È il modo in cui sei venuto.

— Non sono venuto, sono arrivato qui, ecco tutto. Non sapevo che ci fosse una città, ho soltanto seguito un sentiero.

— Nessuno di loro può percorrere quel sentiero. Nessuno, qui. Solo quelli che vengono… attraverso la porta.

Lui non comprese. — Non puoi dirgli che, chiunque stiano aspettando, non sono io?

Irene si rivolse al Nobile Horn e disse: — Mi ha detto di riferire che non è l’uomo che aspettate.

— Sappiamo benissimo chi è — disse quietamente il vecchio. C’erano doppi significati nelle parole che aveva usato. Irene le tradusse esitando in inglese: — Il Nobile Horn dice che sei chi dici di essere, per quel che li riguarda.

— Sembra che io sia quello che loro dicono che sono.

— E cosa c’è che non va? — chiese lei, sprezzante.

— Io devo tornare indietro presto. Lo sanno?

— Non te lo impediranno.

— Tu mi avevi avvertito… alla porta… quella volta. Perché? Sono pericolosi? Sono in pericolo?

— Sì.

— A quale delle due domande hai risposto? Che tipo di pericolo?

— L’una e l’altra. Perché dovrei dirtelo? Ti devo qualcosa? Tu stesso hai detto che questo non è il tuo posto. Sei tu, il pericolo, sei tu quello che non va: è incominciato quando sei venuto. Questo è il mio posto. Sei convinto che te lo cederò perché sei un uomo e quindi puoi avere tutto. Bene, qui non è così!

— Irena — disse il Padrone, che le stava accanto. — Cosa c’è? Che cosa ha detto?

— Niente! È uno sciocco. Questo non è il suo posto, non dovrebbe essere qui. Dovete mandarlo via e vietargli di ritornare!

— Che cosa? — disse il Nobile Horn, lentamente come sempre. — Non conosci quest’uomo, Irena?

— No. Non lo conosco, non voglio conoscerlo!

Allia parlò al padre con quella sua voce lieve e calma: — Irena dice così perché ha paura per noi.

Il Nobile Horn guardò la figlia, Sark, Irene. I suoi occhi, gli occhi quasi incolori di un vecchio, si fissarono nei suoi.

— Noi ti chiamiamo amica — disse Horn.

— Sono vostra amica — ribatté lei, accalorandosi.

— Lo sei. E anche lui è nostro amico. Nessun male giunge mai per quella strada, la tua strada, Irena. Tu sei venuta qui per parlare la nostra lingua, lui per servirci nel bisogno: e questo è come deve essere. L’una e l’altro, l’altro e l’una. Sono due che percorrono quella strada.

Lei rimase per un po’ in silenzio, spaventata.

— Io la percorro sola — mormorò.

Poi le sciocche lacrime le salirono agli occhi, e dovette volgere le spalle fino a quando fu in grado di dominarsi, e si fu asciugata il naso e gli occhi con il fazzoletto che Palizot le aveva messo nella tasca del vestito. Era duro, doversi girare e fronteggiarli. Lo fece, con il volto avvampato.

— Cercherò di fare ciò che mi chiedi — disse. — Che cosa vuoi che gli dica?

— Ciò che ti sembra meglio — rispose il Nobile Horn con quel suo tono smorzato e fermo. — Tu parli per noi.

Con grande stupore di Irene, indietreggiò per lasciar posto ad Allia e al cupo Sark, e con un lievissimo, rigido cenno di saluto a lei e a Hugh Rogers li seguì fuori dalla stanza. Irene rimase di fronte allo straniero.

Il giovane sedette su uno scranno troppo stretto, poi si alzò, impacciato, e andò a fermarsi davanti alle alte finestre.

— Mi dispiace — disse.

La luce dell’oriente era fredda. Irene si avvicinò al fuoco. La crisi di pianto l’aveva lasciata raggelata e intontita. Doveva fare ciò che aveva promesso.

— Ecco ciò che vogliono che io ti dica, a quanto ho compreso. Qui c’è qualcosa che non va; c’è qualche ragione che impedisce loro di lasciare la cittadina. Nessuno può camminare per le strade di campagna. Eccettuati noi, che veniamo dal sud. Hanno paura di qualcosa, e sembra che la situazione peggiori. Fino al tuo arrivo; credono che questo la cambierà, in qualche modo.

— Cambiare che cosa?

— Questa paura.

— Quale paura? È proprio qui che non ho paura. — Lui si scostò dalla finestra. — Qui non capisco nulla, la lingua, perché non è mai notte o giorno, ma non mi ha mai spaventato. Cosa c’è, di cui aver paura?

— Non so. Non parlo tanto bene la lingua. Loro non vogliono parlarne, o io non capisco, quando lo fanno. Dicono soltanto che non possono lasciare la città e che nessuno può venire qui dalle pianure.

— Le pianure — ripeté lui.

— Verso nord, oltre la montagna. La strada attraversa le pianure e arriva a una vera città.

Irene lo guardò e vide gli occhi, grigiazzurri o azzurri, sgranati nel volto bianco, pesante, ansioso. S’era voltato verso di lei ma non la vedeva; stava guardando nella propria mente attraverso le pianure del crepuscolo.

— Tu ci sei stata?

Lei scosse la testa.

— Da che parte è il mare?

— Non so. Non conosco la parola che significa mare.

— Tutti i ruscelli scorrono verso ovest — disse lui, a voce bassa. La guardò con quella sua espressione ansiosa e frastornata, bovina, la fronte e i capelli ricci, la faccia ottusa, l’occhio preoccupato. Irene aveva visto l’immagine sulla copertina di un libro, molto tempo prima; un uomo dalla testa di toro in piedi in una minuscola stanza. L’aveva rivista molte volte, nell’oscurità che precede il sonno: il corpo dell’uomo e la terribile testa pesante.


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