Irene si rialzò: le girava la testa e si era scalfito un avambraccio sulla pietra. Si spolverò la gonna e rimase per un po’ ferma, stordita. Si avvicinò lentamente a un blocco di granito sgrezzato e vi sedette, con le braccia premute contro il ventre, la testa affondata sulle spalle. Sentiva un po’ di nausea, e l’impulso di urinare; alla fine, andò al fosso sotto i vecchi cedri e si accoccolò lì. Più in alto, accanto alla casetta di Geba, due capre magre belavano sommessamente. Irene ritornò alla pietra e si fermò a fissarla, a guardare i segni dello scalpello e le incisioni nel granito.
Non avevo paura, si disse, ma non sapeva se era vero o falso; la paura di lui l’aveva dominata e assorbita.
Non mi perdonerà mai di averlo visto così, pensò; e sapeva che era vero, e non poteva sopportare quella certezza.
Lasciò il cortile del tagliapietre, passò lentamente davanti alla casetta di Geba e alla bottega di Venno.
Potrei andare, potrei proseguire fino alla Città, se non fosse per lui, disse a se stessa, vendicativamente, rabbiosamente; ma sapeva che questo era falso. Né con lui, né sola, sarebbe giunta alla Città. Era tutto falso, tutto menzogne e vanterie e stupide fantasticherie. Non c’era nessun modo di arrivarci.
Irene rimase ancora per quel giorno soltanto, e la notte. Ormai non desiderava molto restare. Lì, adesso, era tutto rovinato. E aveva lasciato tutto in sospeso dall’altra parte. Si sarebbe trovata un posto dove vivere e così via, e poi sarebbe ritornata lì; forse; se ne avesse avuto voglia. Non era al servizio di nessuno. Avrebbe fatto ciò che le pareva.
Il cuore le batteva forte, quando si avviò sulla strada del sud, ma era la paura della paura, niente di più; continuò a procedere con passo fermo.
Non si voltò indietro. Non ci si volta indietro. Questo l’aveva imparato molto tempo prima, quand’era una bambina e aveva paura del buio, di notte, tra i bizzarri filari del vivaio, e correva. Se ti volti indietro, ti prenderà. Tiri avanti e non ti volti a guardare. La discesa era ripida, i boschi molto fitti; lei non s’era mai accorta che i tronchi fossero così affollati, che le reti dei rami fossero così dense. Cercò di camminare in silenzio e poi cercò di non camminare in silenzio, perché quella era paura. Finalmente udì, più avanti, il mormorio dell’acqua, il Terzo Fiume, il ruscello ai piedi della montagna. Era bellissimo, il suono dell’acqua corrente, l’unica musica del suo paese. Perché non vedevi quasi mai gli uccelli, e non cantavano mai, e non cantava mai neppure la gente di Tembreabrezi, nemmeno i bambini. Il vento sussurrava o ruggiva solitario tra i rami alti, ma solo l’acqua cantava sonoramente, perché ascendeva da luoghi più profondi della paura. Arrivò al fiumicello, ampio e poco profondo al guado, luccicante e occhieggiante sotto i vecchi ontani inclinati e coperti di muschio, litigando allegramente con ogni macigno del suo corso. L’attraversò, poi si voltò e s’inginocchiò a bere. Ora l’acqua scorreva tra lei e la montagna, e il suo cuore era più tranquillo.
Si muoveva nella semi-trance abituale dell’andatura costante, con il corpo vigile e la mente occupata da pensieri così lunghi e lenti che era impossibile tradurre in parole, poiché non vi erano parole o frasi abbastanza lunghe, quando il suo corpo, cautamente ma senza preavviso, la fece arrestare, e solo quando rimase immobile, in ascolto, la sua mente chiese: Che cos’è stato?
Il rumore era venuto da un punto più avanti. Ciò che Irene temeva era dietro di lei… ma là! La mole bianca che si muoveva accanto alla svolta, là, avanti… Strinse il ramo che aveva raccattato sulla montagna per farsene un bastone da passeggio (l’aveva chiamato così, tra sé) e lo fece mulinare davanti a sé, in una furia di terrore, e colpì. Il colpo era diretto alla faccia di lui, ma lui teneva il braccio alzato, nell’uscire dal macchione, e parò il bastone con quello. Si fermò, con la testa un po’ ripiegata all’indietro, la bocca aperta, il respiro rumoroso. I suoi occhi erano gli occhi del toro dal corpo umano nella piccola stanza. La mano con cui Irene stringeva il ramo spezzato era intorpidita. Indietreggiò di un passo sul sentiero, di due passi, senza distogliere gli occhi da lui.
La bocca di lui si chiuse, si aprì. — Non posso — disse con voce faticosa e ansimante, e scrollò la testa. — Non posso uscire.
Poi sedette, lasciandosi cadere pesantemente, tremando, sul bordo erboso del sentiero. Sedette con la testa china e le braccia appoggiate sulle ginocchia, la posa semplice e pesante dello sfinimento. Gli tremavano le gambe per i postumi del trauma. Irene sedette, a gambe incrociate, a una certa distanza da lui, depose il ramo spezzato, e si massaggiò la mano destra indolenzita.
— Ti sei perduto?
Lui annuì. Il suo petto si alzò e si abbassò. — Oltre la porta.
— Hai lasciato la città due giorni fa.
— Il sentiero prosegue.
— Hai continuato a seguirlo? Oltre la… dove avrebbe dovuto esserci la porta?
— Pensavo che dovesse arrivare da qualche parte.
— Sei pazzo — mormorò lei, sprezzante, ammirando quel coraggio ostinato.
— È stata una stupidaggine — disse lui, con quella sua voce pesante e rauca. — Alla fine sono tornato indietro. Ma credevo di aver perso il sentiero. — Si massaggiava automaticamente il braccio che aveva parato il colpo. Era il bianco della sua camicia che lei aveva visto nel macchione. Non era tanto bianco, visto da vicino, striato di polvere e di sudore.
Irene aprì la borsa che portava alla cintura ed estrasse il pane che le aveva dato Sofir (aveva mangiato tutto il formaggio, ma solo metà della dura pagnotta bruna al Terzo Fiume) e lo porse, attraverso il sentiero.
Lui alzò gli occhi; lo prese lentamente, e lo mangiò come lei non aveva mai visto nessuno mangiare il pane: tenendolo con entrambe le mani e accostando la testa, come se bevesse o pregasse. Ben presto lo finì. Allora rialzò la testa e la ringraziò.
— Vieni — disse Irene, e lui si alzò subito. Lei provò il fremito interiore della pietà, la cieca compassione fisica per i feriti, vedendo quella pesante obbedienza e la faccia pallida e stanca. — Andiamo — insistette, come avrebbe detto a un bambino, e si avviò precedendolo sul sentiero.
Dopo il Fiume di Mezzo gli chiese se voleva riposare; era già in ritardo, disse lui; proseguirono.
Scesero l’ultimo pendio, attraversarono quell’acqua amata, e giunsero nel luogo dell’inizio. Lei non si fermò, perché la paura di lui la spronava. Lo condusse diritto attraverso la radura, fra l’alto pino e gli allori, oltre la soglia.
Alla sommità del sentiero, nel caldo e nella luce del giorno fatto e nel suono di un aereo a reazione che si spegneva a est e il fetore della gomma che bruciava oltre la collina, Irene si fermò e lasciò che lui la raggiungesse. — Tutto bene? — chiese, con una sensazione di trionfo.
— Tutto bene — disse lui. Era grigio e rugoso come un uomo di cinquant’anni, un vagabondo con la barba lunga di due giorni, un ubriaco o un drogato, curvo e tremante.
— Oh, caspita — disse lei, sgomenta. — Hai un aspetto orribile.
— Ho bisogno di mangiare qualcosa — disse lui.
Poiché erano giunti insieme fin lì, proseguirono insieme.
— Vieni tutte le settimane? — chiese Irene.
— Tutte le mattine.
Per un po’, lei continuò a pensare a quella risposta.
— Puoi sempre entrare? La porta c’è sempre?
Lui annuì.
Dopo un po’, Irene disse: — Io posso uscire sempre.
Uscirono dal bosco di Pincus. La luce sui pascoli abbandonati era così fulgida che li arrestò. Un banco di smog si estendeva traslucido sulla città, verso ovest. Il sole ardeva attraverso la foschia con una luminosità accecante, e tutta l’aria era velata dallo smog e bruciava di luce. Ogni filo d’erba gettava la sua ombra. Il frinire penetrante di una cicala crebbe e si spense e un uccello lanciò un secco richiamo, nel bosco dietro di loro. Avevano gli occhi che bruciavano, e c’era già sudore sui loro volti.