Di solito, sua madre restava a letto il sabato mattina, ma quel giorno si alzò e se ne andò in macchina prima che si alzasse Hugh. Lui andò al lavoro come al solito. Fu una giornata pesante, dato che precedeva due festività. Sua madre non era a casa, quando rientrò. Cenò da solo. Lei arrivò alle dieci e mezzo, agile, cupa, un po’ in disordine nell’abito di cotone stampato. Non rispose al suo saluto e si avviò subito nel corridoio, verso la sua camera.

— Mamma — disse Hugh, e c’era una certa autorità appassionata nella sua voce perché lei si fermò, anche se non si voltò a guardarlo. Il silenzio stava tra loro come una muraglia.

— È inutile che mi chiami così — disse lei, in tono chiaro e asciutto, e andò nella sua stanza e chiuse la porta.

Chi posso chiamare così? pensò lui. Aveva la sensazione che gli fosse stato sottratto qualcosa, qualcosa dal suo corpo; premette le braccia contro le costole per difendersi. Non c’è nessuno che possa chiamare padre, pensò, e adesso non c’è nessuno che possa chiamare madre. Che scherzo, sono nato senza genitori. È inutile, ha ragione lei. E tutto il resto, la terra crepuscolare, la città, Allia… neppure quello è reale. Roba da bambini. Ma io non sono un bambino. I bambini hanno un padre e una madre. Io no, non li ho. Non ho niente e non sono niente. Rimase lì, nel corridoio, pensando che quella era la verità. E in quel momento ricordò, fisicamente, con il suo corpo e non con la mente, il tocco della mano di Donna sul suo braccio, il colore dello smalto delle unghie, il suono della sua voce: — Fai in modo che non ti succeda niente, Buck. — Allora voltò le spalle alla porta di sua madre, tornò in cucina e nella sua camera, a preparare quello che gli sarebbe servito l’indomani mattina: gli abiti che avrebbe indossato, e un pacchetto di pane, salame e frutta per la lunga camminata fino alla montagna.

Si svegliò alle tre, e poi di nuovo alle quattro. Si sarebbe alzato subito per andare, ma era inutile partire così presto, perché aveva detto alla ragazza di aspettarlo alla porta per le sei. Si girò e cercò di riaddormentarsi. Il crepuscolo dell’alba nella stanza, una chiarità fioca e priva d’ombre, era come la luce dell’altra terra. La sveglia ticchettava accanto al letto. Hugh guardò il quadrante bianchiccio, con le sue lancette che si muovevano verso il basso. Non c’erano orologi, là. Non erano ore. Non era il fluire del fiume del tempo a muovere le lancette dell’orologio: erano mosse dal meccanismo. Vedendole muovere, gli uomini dicevano: Il tempo passa, passa, ma si lasciavano ingannare dagli orologi costruiti da loro stessi. Siamo noi che passiamo attraverso il tempo, pensò Hugh. Camminiamo, procediamo lungo i ruscelli, i fiumi; qualche volta possiamo attraversarne uno… Rimase così, quasi sognando, fino alle cinque. Quando la sveglia ridotta al silenzio scattò, lui si alzò, e sentì il pavimento fresco sotto le piante dei piedi. Due minuti dopo era vestito e usciva di casa.

Arrivò alla porta prima delle sei. La ragazza lo stava aspettando.

Non sapeva ancora con certezza come si chiamava. Quando la gente del crepuscolo pronunciava il suo nome, suonava come Rayna o Dana; lei l’aveva corretto, quando aveva detto Rayna, ma non aveva compreso bene la correzione. «La ragazza», la chiamava quando pensava a lei, e quella parola aveva un colore di oscurità e di collera e il suono del ruscello che scorreva. Era là, in piedi, accanto al roveto, nella luce azzurrina, calda e polverosa del primo mattino, sotto le fronde rade degli alberi del bosco della porta. Alzò la testa, quando lo sentì arrivare. Il suo volto olivastro non si addolcì; ma tese la mano, con la palma rivolta verso l’alto e macchiata di porpora, offrendogli una manciata di more. — Sono ormai mature — disse, e gliele versò nella mano. Erano piccole, dolci del lungo caldo d’agosto.

— Hai provato la porta? — chiese lui.

Lei colse qualche altra mora e lo raggiunse sul sentiero, offrendogliele. — Era chiusa. — Andò un poco più avanti, e guardò il sentiero che scendeva nel tunnel di cespugli.

— Ora c’è.

— Avanti, Finnegan, tocca a me — disse Hugh, seguendola. — Ecco qua. — Ma si fermò sulla soglia tra le due terre e si voltò, come non aveva mai fatto prima, a guardare la luce del giorno; le foglie polverose, l’azzurro del cielo inondato di sole tra le fronde, lo svolazzare di un uccellino da un ramo all’altro. Poi si voltò e seguì la ragazza nel crepuscolo.

Dopo che si fu inginocchiato per la prima, rituale bevuta al ruscello, vide che la ragazza aveva fatto lo stesso. Era inginocchiata sulla sporgenza di roccia e guardava l’acqua corrente, in una posa che non era quella convenzionale della preghiera o dell’adorazione; ma Hugh sapeva, dal suo atteggiamento, che quell’acqua era sacra per lei come per lui. Dopo un po’ lei si voltò e si alzò. Attraversarono il ruscello e procedettero insieme nella terra della sera. Lei andava avanti, in silenzio. La foresta divenne completamente silenziosa, quando perdettero la voce dell’acqua. Non un filo di vento agitava le foglie.

Dopo la notte agitata, Hugh si sentiva stordito, ed era contento di avanzare nella foresta senza parlare, senza pensare, seguendo il passo deciso e regolare della ragazza. Tutti i pensieri e tutte le emozioni s’erano eclissati. Camminava. Ancora una volta, sentiva che avrebbe potuto continuare così, camminando a passo sciolto sotto gli alberi immobili, con l’aria fresca della foresta sul viso, all’infinito. Si abbandonava all’immagine senza paura. Quando aveva superato la porta, quando si era sperduto, era stato atterrito dall’idea di poter continuare e continuare sotto gli alberi, nel crepuscolo, senza cambiamenti, senza fine: ma ora che seguiva l’asse e procedeva nella direzione giusta, era interamente sereno. E vedeva Allia al termine del viaggio infinito, come una stella.

La ragazza s’era fermata e lo stava aspettando sul sentiero, una figura piccola e solida, jeans e camicia azzurra a quadrettoni, il viso tondo e deciso. — Ho fame, vuoi fermarti a mangiare?

— È ora? — chiese lui, vagamente.

— Siamo quasi al Terzo Fiume.

— Sta bene.

— Hai portato qualcosa?

Hugh non riusciva a mettere a fuoco la propria mente. Solo quando lei ebbe scelto il posto dove sedersi, presso il sentiero, accanto a un affluente, un rivoletto che scorreva parallelo alla strada, Hugh reagì alla domanda e si offrì di dividere il pane e la carne che aveva portato. Lei aveva con sé panini, formaggio, uova sode, e un sacchetto di piccoli pomodori, un po’ ammaccati ma tentatori nel loro rosso vivo e innocente, in quel luogo di penombra dove tutti i colori erano smorzati e non sbocciavano i fiori. Lui mise le sue provviste accanto a quelle della ragazza; poi prese un pomodoro dalla parte di lei, e la ragazza prese una fetta di salame dalla sua; quindi si spartirono tranquillamente il cibo. Lui mangiò molto più di lei; aveva una gran fame, ma poiché mangiava più in fretta, finirono più o meno contemporaneamente.

— La città sulla montagna ha un nome? — le chiese. Si sentiva finalmente sveglio, ma molto rilassato, mentre attaccava l’ultimo pezzo di pane e salame.

Lei pronunciò un paio di parole, o una parola molto lunga nella lingua di quella terra. — Significa soltanto Città della Montagna. È come la chiamo io, quando penso in inglese.

— Anch’io lo facevo, credo. Come… Una volta hai dato un nome a questo posto. Tutto quanto. — Hugh indicò con il panino tutti gli alberi, tutto il crepuscolo, i fiumi avanti e indietro.

— Lo chiamo il mio paese. — Gli occhi della ragazza lampeggiarono, diffidenti, con un’espressione di sfida.

— Ma non è nella loro lingua.

— No. — Dopo un po’ lei disse, controvoglia. — È tratto da una canzone.

— Che canzone?

— Una volta, all’assemblea della scuola, è venuto un cantante folk e l’ha cantata, e mi è rimasta impressa nella mente. Non ne capivo neppure la metà, è in scozzese o qualcosa del genere. — La voce della ragazza era quasi rabbiosa.


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