Il fuoco ardeva nel grande camino della locanda. Un profumo appetitoso di cipolle, cavoli e spezie pervadeva le stanze. Tutto era com’era stato, come doveva essere, con un paio di migliorie da ammirare: i pavimenti erano coperti da stuoie di paglia rossiccia, anziché da sabbia sparsa sul legno nudo. — È molto bello, è più caldo — disse Irene, e Palizot, compiaciuta ma critica: — Non so ancora quanto dureranno. Ci vuole un po’ di luce qua dentro, oltre al fuoco. Sofir! È arrivata Irena! Resterai un po’ con noi, levadja?

Bambina, significava quella parola, cara bambina; lì aggiungevano «adja» anche ai nomi, trasformandoli in vezzeggiativi. A Irene faceva piacere, quando Palizot la chiamava così. Annuì, poiché aveva già deciso di trascorrere lì dodici giorni, una notte soltanto dall’altra parte della soglia. Stava cercando di scegliere le parole per una domanda, e non le trovò subito, perché erano trascorsi mesi dall’ultima volta che aveva parlato quella lingua. — Palizot. Dimmi. Da quando sono stata qui… è venuto qualcuno dalla strada del sud?

— Non è venuto nessuno, da nessuna strada — disse Palizot, una strana risposta, in tono calmo e grave. Poi Sofir salì dalle cantine, con le ragnatele sui folti capelli neri, un uomo dalla voce di baritono, modellato con le stesse dimensioni dal petto al fianco, così che sarebbe stato possibile dividerlo in sezioni rotonde, come un tronco d’albero; abbracciò Irene, le strinse le mani, tuonando gioiosamente: — È passato tanto tempo, Irenadja, tanto tempo, ma sei tornata!

Le assegnarono la sua stanza preferita, e Irene aiutò Sofir a portar su la legna per il camino. Sofir preparò e accese subito il fuoco per riscaldare e arieggiare la stanza; sembrava che non fosse stata usata per diverso tempo. Non c’erano altri ospiti alla locanda. In sé, la cosa non era insolita, ma Irene cominciò a notare altri indizi che pochi viaggiatori e poco traffico venivano alla locanda. I grossi boccali di peltro per la birra, appesi in fila lungo la parete, non erano stati usati di recente, a giudicare dall’aspetto, per una chiassosa serata tra mercanti o per il benvenuto a un gruppo di compratori di stoffe arrivati dalle pianure. Irene andò a vedere quante bestie c’erano nella stalla; ma non ce n’era nessuna, e le mangiatoie erano vuote. Sebbene Sofir fosse un ottimo cuoco, a cena le vivande erano grossolane, e non erano accompagnate dal suo squisito pane di grano, ma solo dalla polenta scura ricavata dai cereali che crescevano lì sulla montagna. Intorno a Sofir e Palizot c’era un’atmosfera di difficoltà o di costrizione; ma non dicevano nulla, direttamente, dei loro magri affari, e Irene si sentì incapace di chieder loro qualcosa. Per loro era ancora «la bambina», gradita e circondata di premure perché non era responsabile delle loro avversità e delle loro preoccupazioni. Perciò, per lei, il soggiorno presso quei due era sempre stato una festa del cuore; e non sapeva come cambiare, anche se avesse voluto. E come sempre, loro parlavano solo di cose senza importanza; l’importante era il loro affetto.

Dopocena, alcuni abitanti della piccola città vennero lì per passare la serata. Sofir si mise al banco del grande stanzone d’ingresso, per servire gli uomini. Le donne raggiunsero Palizot accanto al fuoco, nella comoda stanza accanto alla cucina. Bevevano la birra di produzione locale e chiaccheravano; la vecchia Kadit trangugiò un quarto di pinta d’acquavite di mele. Irene aveva preso un boccale molto piccolo di birra, che era fortissima, e aiutava Palizot a cucire una coperta a mosaico di stoffe. Detestava il cucito; ma quel lavoro insieme a Palizot era un vecchio piacere, una delle cose cui pensava con nostalgia, dall’altra parte della soglia: i pezzetti di lana dai colori delicati, la luce del fuoco e la luce della lampada, il viso lungo, serio e mite di Palizot, le voci sommesse delle donne e la risata sbuffante di Kadit, il brusio e il borbottio degli uomini che parlavano nell’altra stanza, la sonnolenza, il silenzio della grande, vecchia casa e il silenzio delle vie della città, e delle foreste, al di là delle vie.

Quando le lampade venivano accese, e le tende e le imposte chiuse, sembrava sempre che fuori fosse notte. Irene non aprì gli scuretti della finestra della sua camera fino a quando si alzò, dopo aver dormito tutta la notte; e il crepuscolo immutabile sembrava la semioscurità di un mattino d’inverno. Era così che ne parlavano gli abitanti della città: dicevano mattino, mezzogiorno, notte. Imparando la loro lingua, Irene aveva appreso quelle parole, ma non sempre le giungevano indiscusse sulle labbra. Che significato potevano avere, lì? Ma non poteva chiederlo a Palizot o a Sofir, o a Trijiat, la madre di Aduvan, o alle altre donne cui era affezionata; le sue domande non suonavano chiare; tutti ridevano e dicevano: — Il mattino viene prima di mezzogiorno, e la sera viene dopo, bambina! — Erano sempre divertiti dalle sue difficoltà linguistiche, e pronti ad aiutarla, ma non a porre in dubbio le loro certezze. Non c’era nessuno, nella Città della Montagna, che fosse in grado di parlare di quelle cose, tranne il Padrone. Perciò lei aveva deciso di chiedergli perché lì non c’erano né il giorno né la notte, perché il sole non sorgeva mai eppure non si vedevano mai le stelle: com’era possibile? Ma non glielo aveva mai chiesto. Quali erano le parole che significavano sole e stella, nella sua lingua? E se lei avesse detto — Perché qui non è mai notte o giorno? — avrebbe fatto la figura della stupida, perché giorno significava la veglia e notte significava il sonno, e lì si svegliavano e lavoravano e dormivano come tutti quelli dall’altra parte. Irene avrebbe potuto cominciare a spiegare: — Nel posto da dove sono venuta c’è un fuoco rotondo nel cielo. — Ma innanzi tutto, sarebbe stato come il linguaggio di un cavernicolo d’un film, e in secondo luogo (e questa era la cosa più importante) lei non parlava mai del posto da cui veniva. Fin dall’inizio, dalla prima volta che aveva varcato la soglia, la prima volta che aveva attraversato il Primo Fiume, la prima volta che era giunta alla Città della Montagna, aveva compreso che in un luogo non si parlava mai dell’altro. Non dicevi mai da dove venivi, a meno che te lo chiedessero. E nessuno lo chiedeva mai, nell’uno o nell’altro territorio.

Irene era convinta che il Padrone sapesse qualcosa dell’esistenza della porta. Forse sapeva anche molto di più: e sebbene lei non lo ammettesse chiaramente di fronte a se stessa, credeva che in effetti il Padrone sapesse molto più di lei, e che le avrebbe spiegato tutto, se glielo avesse chiesto. Ma non osava chiederglielo. Non era ancora il momento. Sapeva ancora così poco, del suo paese, conosceva solo la strada del sud, e la piccola città, gli abitanti della città e i loro commerci e i dissidi e gli scherzi e le arti e i pettegolezzi e le usanze, che non si stancava mai d’imparare, e la loro lingua, che parlava correntemente e che tuttavia talvolta non comprendeva affatto. Sempre, fuori dal centro benigno del focolare, si stendevano il crepuscolo e il silenzio, l’inspiegato, l’inesplorato. Lei era sempre stata contenta che fosse così. S’era augurata che lì non fosse cambiato nulla. Ma questa volta, fin dalla prima sera, al primo focolare, aveva sentito che il cerchio s’era spezzato. Non era più sicuro. Per quanto lei lo desiderasse, per quanto lo desiderassero gli altri, lei non era più una bambina.

Dopo colazione andò a far visita a Trijiat, e poi accompagnò Aduvan e il fratellino dal calzolaio, dall’altra parte della città, per lasciare da risuolare le scarpe più belle della loro madre. La bambina chiaccherò per tutta la strada, e il piccino trillava come un grillo. Avevano la testa piena di una storia di fantasmi o qualcosa del genere che qualcuno gli aveva raccontato, e continuavano a chiedere a Irene se non aveva avuto paura, quando era salita su per la montagna. Virti corse avanti, si nascose dietro un portico, balzò fuori verso di lei, lanciando suoni terrificanti come un grillo isterico, e lei lanciò doverose grida di sgomento e di orrore. — Devi cadere! — disse Virti, ma Irene rifiutò di cadere. Dopo aver sbrigato la commissione, lasciò i bambini dalla loro nonna, e lasciò la strada principale della cittadina, dirigendosi verso la più ripida delle vie selciate che salivano il fianco della collina; era così erta che a volte si spezzava in gradini, come una persona prorompe in risatine o singhiozzi, e poi riprendeva l’ascesa fino a un’altra crisi convulsa di scalini. In alto c’era il muro del giardino del maniero, e la porta ad arco spiccava bellissima contro il cielo limpido. Svoltando a destra prima di raggiungere la porta, Irene si soffermò un momento, e alzò lo sguardo verso la casa del Padrone.


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