— Lo siamo già, lo siamo già — disse Orr, ma l’altro non gli prestò attenzione.

— Non c’è nulla da temere. Il periodo pericoloso… ah, averlo saputo allora!… era quando soltanto lei poteva sognare in modo efficace, e non sapeva come servirsi della sua facoltà. Se lei non fosse venuto da me, se lei non fosse stato affidato alle mani addestrate di uno scienziato, chissà cosa sarebbe successo! Ma lei era qui, e io ero qui: come si dice, la genialità consiste nel trovarsi al momento giusto nel posto giusto! — Rise fragorosamente. — Dunque, ora non c’è niente da temere, e nulla resta affidato alle sue mani. Io so, sia dal punto scientifico che da quello morale, cosa faccio e come devo farlo. Io so dove vado.

— Vulcani eruttano fiamme — mormorò Orr.

— Come?

— Posso andare, ora?

— Domani alle cinque.

— Sarò qui — promise Orr, e uscì.

CAPITOLO DECIMO

Il descend, réveillé, l’autre côté du rêve.

Hugo, Contemplations

Erano soltanto le tre del pomeriggio, e sarebbe stato suo dovere tornare in ufficio, al Dipartimento Parchi, per terminare i progetti delle aree di gioco della zona sudorientale della città; ma non tornò. Pensò una singola volta a tornare, poi se lo cancellò dalla mente. La memoria gli diceva che aveva quel lavoro da cinque anni, ma non credeva alla propria memoria; quel lavoro non gli pareva reale. Non era un lavoro da fare. Non era il suo lavoro.

Era consapevole che confinando nell’irrealtà un elemento importante dell’unica realtà, dell’unica esistenza, correva esattamente lo stesso rischio delle menti malate: la perdita del senso del libero arbitrio. Sapeva che quando si nega ciò che si è, si finisce con l’essere posseduti da ciò che non si è: dalle coazioni, le fantasie, i terrori che accorrono a colmare il vuoto. Ma il vuoto c’era. Questa vita mancava di realtà; era vuota. Il sogno, creando dove non c’era necessità di creare, era diventato logoro e sottile. Se questo era vivere, allora forse il vuoto era preferibile. Meglio accettare i mostri e le necessità esterne alla ragione. Meglio andare a casa, e non prendere farmaci, ma dormire e sognare senza preoccupazione.

Giunto in città, scese dalla funicolare, ma invece di prendere il tram si avviò a piedi verso la propria casa; gli era sempre piaciuto camminare.

Dietro Lovejoy Park era ancora in piedi un tratto della vecchia soprelevata: una larga rampa, che risaliva probabilmente alle ultime convulsioni della mania autostradale degli anni ’70; un tempo portava a Marquam Bridge, ma ora terminava bruscamente a mezz’aria, dieci metri sopra Front Avenue. Non era stata distrutta quando la città era stata ripulita alla fine degli Anni della Peste, forse perché era così grossa, inutile e brutta da risultare, per l’Occhio americano, pressoché invisibile. Era ancora lì: qualche arbusto aveva messo radice sulle corsie, e sotto di essa era cresciuto un mucchio disordinato di edifici, come nidi di rondine sotto un dirupo. In questa zona trasandata e interlocutoria della città rimanevano ancora negozietti, piccoli empori, trattorie poco appetibili e così via, che riuscivano a sopravvivere nonostante i rigori dell’onnipresente Razionamento dei Prodotti di Consumo e della schiacciante competizione della grande catena Mercato e Distribuzione, appartenente al Centro di Programmazione Mondiale, che monopolizzava il 90 per cento del commercio.

Uno di questi negozietti sovrastati dalla rampa stradale vendeva articoli usati; l’insegna diceva ANTICHITÀ, e una seconda scritta, tracciata alla buona sul vetro, avvertiva: RIGATTIERE. In una vetrina c’era del vasellame tozzo, fatto a mano, nell’altra una vecchia sedia a dondolo con uno scialle di Paisley sui braccioli, tutto mangiato dalle tarme, e, sparsa alla rinfusa intorno a questi articoli di prestigio, ogni sorta di spazzatura culturale: un ferro da cavallo, un orologio a molla, un misterioso attrezzo agricolo, una fotografia del Presidente Eisenhower con cornice, un globo di resina trasparente, leggermente opaca, contenente tre monete equadoriane, un asse da WC di plastica, con decorazioni di alghe e granchiolini, e una pila di vecchi 45 giri; il cartellino diceva «Quasi nuovi», ma erano certamente frusciati. Proprio il tipo di posto, si disse Orr, in cui potrebbe avere lavorato per qualche tempo la madre di Heather. Spinto da un impulso, entrò nel negozio.

L’interno era freddo, e piuttosto buio. Un pilone dell’autostrada formava una delle pareti: un’alta distesa di cemento scuro e vuoto, simile alla parete di una grotta sottomarina. Dal digradante orizzonte di ombre, mobili massicci, decrepite distese di quadri alla Pollock e di trottole imitazione antico (che ora cominciavano a diventare veramente antiche, anche se rimanevano inutili come allora), da questi tenebrosi reami di oggetti di nessuno, emerse una forma enorme, che parve avanzare galleggiando lentamente, silenziosamente, da rettile: il proprietario era un Alieno.

Sollevò il gomito sinistro e disse: — Buon giorno. Desiderate un oggetto?

— Grazie, davo soltanto un’occhiata.

— Prego, continuate questa attività — disse il negoziante. Si ritirò di qualche passo nell’ombra e rimase lì, perfettamente immobile. Orr osservò alcune vecchie penne di struzzo mangiate dai topi, poi un vecchio proiettore a passo ridotto del 1950, un servizio da tè bianco e azzurro, una raccolta di vecchi fascicoli di «Mad», molto cari. Prese un martello di acciaio inossidabile e lo soppesò per controllarne l’equilibrio; era un utensile ben fatto, un buon arnese. — È lei che sceglie queste cose? — domandò al proprietario, chiedendosi che cosa potesse piacere agli Alieni, in mezzo a quei relitti degli anni opulenti d’America.

— Quanto arriva è accettabile — rispose l’Alieno.

Atteggiamento molto simpatico. — Mi chiedo se potrebbe spiegarmi una cosa. Nel vostro linguaggio, qual è il significato della parola iahklu’?

Il proprietario tornò avanti lentamente, facendo passare con attenzione, tra gli oggetti fragili, l’ampia corazza a forma di guscio.

— Incomunicabile. Il linguaggio usato per la comunicazione con le persone-individui non può accogliere altre forme di relazione. Gior Gior. — La mano destra dell’Alieno (un’appendice enorme, verdastra, simile a una pinna) venne avanti in modo lento e forse dubbioso. — Tiua’c Ennebi.

Orr gli strinse la mano. L’Alieno rimaneva immobile, e probabilmente lo osservava, anche se non si scorgeva alcun occhio all’interno del casco scuro e pieno di vapori. Se era un casco. C’era davvero una forma concreta, all’interno di quella corazza verde, di quella poderosa armatura? Non lo sapeva. Si sentiva perfettamente a suo agio, però, con Tiua’c Ennebi.

— Non credo — disse, parlando di nuovo per impulso, — che lei abbia conosciuto una persona chiamata Lelache.

— Lelache? No. Cercate Lelache, voi?

— Ho perduto Lelache.

— Attraversando la nebbia — osservò l’Alieno.

— È così, all’incirca — disse Orr. Da un tavolino davanti a lui, affollato di simili figurine, prese un busto di gesso di Franz Schubert, alto cinque o sei centimetri: probabilmente doveva essere stato il regalo di un maestro di musica all’allievo. Sulla base, l’allievo aveva scritto: «E io mi preoccupo?». Il volto di Schubert era mite e impassibile: un piccolo Buddha occhialuto. — Quanto fa? — chiese Orr.

— Cinque nuovi centesimi — rispose Tiua’c Ennebi.

Orr gli porse una moneta della Federazione dei Popoli.

— C’è qualche modo per controllare lo iahklu’, per farlo andare nel modo… nel modo in cui dovrebbe andare?

L’Alieno prese la monetina e scivolò maestosamente verso un registratore di cassa che Orr aveva scambiato per un oggetto d’antiquariato in vendita. Registrò l’importo e rimase immobile per alcuni istanti.


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