— Perché dice che sua madre non si è accorta che la realtà era cambiata dalla sera prima?
— Be’, lei non l’aveva sognata. Voglio dire che il sogno cambiò davvero la realtà. Costruì una realtà diversa, retrodatata, di cui mia madre aveva sempre fatto parte. E lei, dato che vi era dentro, non aveva ricordi di altre realtà. Io ne avevo, invece, e le ricordavo entrambe, perché io… ero lì al momento del cambio. È l’unico modo in cui posso spiegarmelo, anche se so che è privo di senso. Ma una spiegazione devo pur darmela, oppure rassegnarmi alla conclusione di essere pazzo.
No, decisamente questo tale non era affatto burro e marmellata.
— Il mio ramo, signor Orr, non è quello di dare giudizi. Io cerco i fatti. E gli eventi della psiche, mi creda, per me sono dei fatti. Quando lei vede i sogni di un altro, nello stesso momento in cui li sogna, registrati nero su bianco nell’encefalogramma, come li ho visti io migliaia di volte, lei non parla più dei sogni come di eventi «irreali». I sogni esistono, sono dei fatti, lasciano un segno dietro di sé. Allora, credo di capire che lei ha fatto altri sogni che parevano avere lo stesso tipo di effetto, vero?
— Qualcuno. Però, a una certa distanza di tempo. E sempre in momenti di tensione. Ma mi pareva che… aumentassero di frequenza. Cominciai ad averne paura.
Haber si sporse verso di lui. — Perché?
Orr parve sorpreso.
— Perché averne paura?
— Perché non desidero affatto cambiare le cose! — esclamò Orr, col tono di chi dice una cosa lapalissiana. - Che diritto ho, io, di cambiare la natura delle cose? E poi, è la mia mente inconscia a cambiare le cose, senza controllo da parte della mia intelligenza. Ho provato con l’autoipnosi, ma non ho ottenuto nulla. I sogni sono incoerenti, egoistici, irrazionali… immorali, come ha detto lei un minuto fa. Ci arrivano dalla parte asociale di noi stessi, non è vero, almeno per una certa percentuale? Io non volevo uccidere la povera Zia Ethel. Io desideravo soltanto che si togliesse dai piedi. Be’, nel sogno queste cose finiscono col diventare un po’ drastiche. I sogni tagliano corto: l’ho uccisa. In un incidente avvenuto un mese e mezzo prima, a migliaia di chilometri di distanza. Ma sono responsabile della sua morte.
Haber tornò a carezzarsi la barba. — E quindi — fece, lentamente, — i farmaci che sopprimono i sogni. Per evitare ulteriori responsabilità.
— Esattamente. I farmaci impedivano ai sogni di diventare troppo vividi. Soltanto certi sogni… sogni molto vivaci, intensi, risultano… — s’interruppe, cercando la parola meglio adatta: — «Efficaci».
— Capisco. Benissimo. Vediamo un po’. Lei non è sposato, e di professione fa il disegnatore per la Compagnia Idraulica Bonneville-Umatilla. Che ne pensa del suo impiego.
— Buono.
— E la sua vita sessuale?
— Finora ho contratto soltanto un matrimonio temporaneo. Ci siamo lasciati l’estate scorsa, dopo un paio d’anni.
— Chi è stato a voler troncare, lei o sua moglie?
— Tutt’e due. Lei non voleva figli. La nostra unione non era roba da matrimonio definitivo.
— E da allora a oggi?
— Be’, ci sono alcune ragazze del mio ufficio, ma non… Sa, confesso di non essere un grande scopatore, a dire il vero.
— E per quanto riguarda i rapporti interpersonali in generale? Pensa che le sue relazioni con le altre persone siano soddisfacenti, ritiene di avere un suo posto nell’ecologia emozionale dei suoi conoscenti?
— Mah, penso di sì.
— Quindi si potrebbe affermare che nella sua vita non c’è nulla di fondamentalmente storto, vero? Benissimo. E ora mi dica una cosa: lei desidera, lei desidera veramente, uscire fuori da questa dipendenza dai farmaci?
— Certo.
— Benissimo. Ora, lei prendeva le medicine perché voleva evitare di sognare. Ma non tutti i sogni sono pericolosi; soltanto certi sogni molto vividi. Lei ha sognato sua zia Ethel sotto forma di una gatta bianca, ma, la mattina dopo, sua zia non era affatto una gatta bianca, vero? Alcuni sogni non fanno niente di male, sono sicuri, eh?
Attese il cenno d’assenso di Orr.
— Bene, allora le propongo una cosa. Che ne direbbe di fare una prova di tutta la faccenda: una prova che forse potrà insegnarle come riuscire a sognare con tutta sicurezza, senza timori? Mi spiego. Per lei, l’argomento del sognare è molto «carico» emotivamente. Lei ha letteralmente paura di sognare, perché ritiene che alcuni sogni abbiano la capacità di modificare il mondo reale, cambiandolo in modi che lei non può controllare. Ora, questa potrebbe essere una metafora molto complessa e molto significativa, di cui si serve la sua psiche inconscia per cercare di comunicare alla sua psiche cosciente certi aspetti della realtà… della sua realtà, della sua vita… che lei, razionalmente, non è ancora pronto ad accettare. In questo momento, il suo problema è il seguente: lei ha paura di sognare, eppure il suo organismo ne ha bisogno. Lei ha cercato di sopprimere i sogni mediante i farmaci, ma questo non ha funzionato. Benissimo, dico io: allora proviamo a fare il contrario. Proviamo a farla sognare, intenzionalmente. Facciamola sognare, intensamente, vivacemente, qui stesso. Sotto la mia supervisione, in condizioni scientificamente controllate. In modo che lei possa riavere il controllo di ciò che, secondo lei, le è sfuggito di mano.
— Ma non posso sognare a comando! — esclamò Orr, in tono di massimo sconforto.
— Niente affatto! Lei può farlo benissimo, nel Palazzo dei Sogni del Dottor Haber! Mai stato ipnotizzato?
— Dal dentista.
— Eccellente. Benissimo. Ecco il sistema: io la metterò in trance ipnotica, e le dirò che sta per addormentarsi, che farà un sogno, e che cosa sognerà. Lei porterà una cuffia trasmettitrice, per avere la sicurezza che si tratti di sonno vero e proprio, e non soltanto di una banale trance ipnotica. E io, mentre lei sognerà, la terrò sotto osservazione, direttamente e sull’EEG… sull’elettroencefalogramma, per tutto il tempo. Poi la sveglierò, e allora noi potremo parlare del sogno da lei fatto. E se tutto si svolgerà senza traumi, forse lei si sentirà più tranquillo quando si avvicinerà il momento del sogno successivo.
— Ma non riuscirò a fare un sogno «efficace», qui da lei! È una cosa che succede una volta ogni dieci, ogni cento sogni. — Le razionalizzazioni difensive di Orr erano molto coerenti.
— Qui da me, lei può fare qualsiasi tipo di sogni. Il contenuto dei sogni e il loro valore emotivo possono venire controllati quasi totalmente, se il paziente desidera sinceramente collaborare e l’ipnotista conosce il fatto suo. Ho dieci anni d’esperienza in questo campo. E lei collaborerà con me, perché porterà la cuffia. Mai portata una?
Orr scosse il capo.
— Comunque, sa di cosa si tratta.
— Inviano un segnale mediante elettrodi che stimolano… il cervello a seguire quel segnale.
— Sì, pressappoco si tratta di questo. I russi l’hanno usata per cinquant’anni, gli israeliani l’anno perfezionata, poi ce ne siamo impadroniti noi e abbiamo cominciato a produrla in serie, sia per uso professionale nel calmare pazienti psicotici, sia per uso domestico nell’indurre il sonno o la trance alfa. Ora, un paio d’anni fa, io stavo lavorando su una paziente gravemente depressa, in Terapia Obbligatoria al Linnton. Come molti casi di depressione, non dormiva abbastanza, e soprattutto aveva una carenza di sonno onirico, di stato-d. Ogni volta che entrava nello stato-d, tendeva a destarsi. Un circolo vizioso: aumento di depressione, riduzione di sogni; riduzione di sogni, aumento di depressione. Bisognava spezzarlo. Ma come? Dei farmaci a nostra disposizione, nessuno riesce efficacemente a incrementare il sonno-d. Provare con l’SEC, la stimolazione elettrica del cervello? Non mi pareva il caso: questa tecnica richiede di impiantare elettrodi attraverso le ossa craniche, e impiantarli profondamente, per poter raggiungere i centri nervosi del sonno; preferisco sempre evitare le operazioni chirurgiche. Mi servivo già della cuffia su di lei per spingerla al sonno, e mi sono detto: se provassi a rendere più specifici, meno generici, i segnali a bassa frequenza della cuffia, dirigendoli su quella particolare area cerebrale? Ma sì, certo, dottor Haber, è un’ottima idea! Comunque, una volta eseguite le ricerche elettroniche preliminari, mi bastarono un paio di mesi per progettare il prototipo della mia apparecchiatura. Con questa cominciai a stimolare il cervello della paziente, servendomi di una registrazione delle onde cerebrali di un soggetto sano, rilevate negli stadi opportuni: i vari stadi del sonno e del sogno. Non riusciì a ricavarne un gran che. È difficile che un segnale proveniente da un altro cervello riesca a suscitare la risposta voluta nel cervello del paziente; dovetti imparare a costruire un segnale molto generale: una specie di media, da centinaia di registrazioni di onde cerebrali normali. Oggi, quando uso il mio metodo su un paziente, parto da questo segnale medio e lo adatto al paziente, ne costruisco su misura uno che vada bene per lui. Come vedo che il cervello del paziente segue la direzione che voglio impartirgli, io registro questo momento, aumento il segnale, lo prolungo, lo rendo più intenso e glielo invio così aumentato: insomma, induco il cervello a seguire i propri impulsi più salutari, se mi concede la frase. Ora, tutto ciò richiede una notevole mole di analisi delle riafferenze, analisi del feed-back, come diciamo noi, cosicché, pian piano, da un semplice apparecchio cuffia-piú-elettroencefalogramma, sono arrivato a questo… — e indicò la selva di apparecchiature elettroniche installate alle spalle di Orr. Ne aveva nascosto la maggior parte dietro paraventi di plastica, perché molti pazienti o provavano timore per le macchine, oppure tendevano a identificarsi eccessivamente con esse, ma, nonostante i tentativi di mimetizzazione, i macchinari occupavano ancora un buon quarto dell’ufficio. — Le presento la Macchina dei Sogni — disse con un sorriso, — ovvero, più prosaicamente, l’Aumentore; e, venendo al suo caso, ce ne serviremo nel seguente modo: ci garantirà che lei dorma e che lei sogni… che faccia un sogno breve e superficiale, oppure un sogno lungo e molto intenso, a nostra scelta. Ah, detto per inciso, la paziente depressa è stata dimessa dal Linnton l’estate scorsa, completamente guarita. — Si sporse verso Orr. — Allora, è disposto a fare una prova?