Padre Lenar Hoyt, della Compagnia di Gesù antica di milleduecento anni, residente a Nuovo Vaticano su Pacem e servo leale di Sua Santità Papa Urbano XVI, in quel momento urla frasi oscene.
Hoyt è perduto e soffre disperatamente. Le ampie stanze vicino all'entrata della Tomba di Giada si sono ristrette, il corridoio ha fatto tante di quelle svolte che ora padre Hoyt non trova più la strada in una serie di catacombe, vaga fra pareti che risplendono di luce verdastra, in un labirinto che non ricorda d'avere visto durante l'esplorazione del giorno precedente né rilevato sulle mappe lasciate al campo. Il dolore — dolore che è stato con lui da anni, dolore che l'ha accompagnato da quando la tribù dei Bikura gli impiantò i due crucimorfi, il suo e quello di Paul Duré — ora minaccia di farlo impazzire, con la sua rinnovata intensità.
Il corridoio si stringe di nuovo. Lenar Hoyt urla, non si rende più conto di urlare, né delle parole che grida… parole che non ha più adoperato da quando era bambino. Vuole liberazione. Liberazione dal dolore. Liberazione dal fardello di portare il DNA di padre Duré, la personalità… l'anima!… di Duré, nel parassita a forma di croce che ha sulla schiena. E dalla terribile sciagura della propria risurrezione nel crucimorfo che ha sul petto.
E mentre urla, Hoyt capisce che non sono stati i Bikura ormai estinti a condannarlo a una simile sofferenza: i coloni che formavano quella tribù perduta, risuscitati dal proprio crucimorfo tante di quelle volte da essere divenuti idioti, semplice veicolo del proprio DNA e di quello del parassita, erano stati anche sacerdoti… sacerdoti dello Shrike.
Padre Hoyt della Compagnia di Gesù ha portato con sé una fiala d'acqua santa benedetta da Sua Santità, un'Ostia consacrata durante una Messa solenne e una copia dell'antico rito d'esorcismo della Chiesa. Tutte cose adesso dimenticate, chiuse in una bolla di perspex, tenute in una tasca del mantello.
Hoyt barcolla contro la parete e urla di nuovo. Ora la sofferenza è una forza che sfida ogni descrizione, che non reagisce all'effetto della fiala d'ultramorfina che Hoyt si è iniettato solo quindici minuti prima. Il prete urla e si artiglia le vesti, si strappa il pesante mantello, la tonaca nera e il solino rigido, i calzoni e la camicia e la biancheria, finché non rimane tutto nudo a rabbrividire di dolore e di freddo nei corridoi lucenti della Tomba di Giada e a urlare oscenità nella notte.
Avanza di nuovo barcollando, trova un'apertura, passa in una sala più ampia di quanto non ricordi dalle precedenti esplorazioni. Pareti spoglie e trasparenti si alzano per trenta metri su ogni lato dello spazio vuoto. Hoyt cade sulle mani e sulle ginocchia, guarda in basso e si rende conto che il pavimento è divenuto quasi trasparente. Adesso la sottile membrana del pavimento lo separa da un pozzo verticale che sprofonda per un chilometro o più nelle fiamme. La stanza si riempie della luce rossastra e pulsante che proviene dal fuoco sul fondo lontanissimo del pozzo.
Hoyt si rotola sul fianco e ride. Se questa vuole essere un'immagine dell'inferno evocata a suo uso e consumo, è un fiasco. Hoyt vede l'inferno come qualcosa di tattile: il dolore che si muove in lui come fili frastagliati tirati lungo le vene e i visceri. Inferno è anche il ricordo di bambini affamati nei quartieri poveri di Armaghast e il sorriso dei politici che mandano ragazzi a morire nelle guerre coloniali. Inferno è il pensiero che, durante la sua vita, durante la vita di Duré, la Chiesa si estingue e gli ultimi credenti sono una manciata di vecchi e di vecchie che riempiono solo alcuni banchi delle gigantesche cattedrali su Pacem. Inferno è l'ipocrisia di celebrare la messa del mattino, con il male del crucimorfo che pulsa, caldo, osceno, sopra il suo cuore.
C'è una folata d'aria rovente; una sezione del pavimento scivola via, forma una botola. La stanza si riempie di puzza di zolfo. Hoyt ride, a questo cliché, ma subito la risata si muta in pianto. Ora Hoyt è in ginocchio, con le unghie sanguinanti si gratta i crucimorfi che porta sul petto e sulla schiena. I due gonfiori a forma di croce sembrano brillare nella luce rossastra. Hoyt sente il crepitio della fiamme, in basso.
— Hoyt!
Continuando a piangere, Hoyt si gira: la donna, Lamia, si staglia nel vano d'ingresso. Guarda al di là del prete e alza una rivoltella antica. Ha gli occhi spalancati.
Padre Hoyt sente il calore alle spalle, ode il ruggito d'una fornace lontana, ma su tutto avverte a un tratto il raspare del metallo sulla pietra. Passi. Continuando ad artigliare il gonfiore insanguinato sul petto, Hoyt si gira, si scortica le ginocchia contro il pavimento.
Vede prima l'ombra: dieci metri d'angoli vivi, di spine, di lame… gambe simili a tubature d'acciaio con una rosetta di lame da scimitarra alle ginocchia e alle caviglie. Poi, fra le pulsazioni di luce ardente e d'ombra buia, Hoyt vede gli occhi. Centinaia, migliaia di sfaccettature ardenti di luce rossa, un laser che brilla fra due rubini gemelli, sopra il collare di spine d'acciaio e il torace argento vivo che riflette fiamma e ombra…
Brawne Lamia spara con la rivoltella paterna. Lo schiocco dei colpi echeggia, forte e secco, sopra il rombo della fornace.
Padre Lenar Hoyt si gira di scatto verso di lei, alza la mano. — No, non sparare! — grida. — Lui concede un desiderio! Devo esprimere…
Lo Shrike, che era là, a cinque metri, a un tratto è qui, a un braccio da Hoyt. Lamia smette di sparare. Hoyt alza gli occhi, vede il proprio riflesso nel cromo brunito del carapace… in quell'istante scorge qualcos'altro, negli occhi dello Shrike… e poi il mostro è svanito, lo Shrike è svanito, e Hoyt solleva lentamente la mano, si tocca la gola, quasi assorto, fissa per un secondo la cascata di rosso che gli copre la mano, il petto, il crucimorfo, il ventre…
Si gira verso la porta: Lamia guarda ancora, atterrita e sconvolta, non più lo Shrike, ma proprio lui, padre Lenar Hoyt della Compagnia di Gesù, e in quell'istante il prete si accorge che il dolore è sparito e apre la bocca per parlare, ma emette solo altro rosso, un geyser di rosso. Abbassa di nuovo lo sguardo, nota per la prima volta di essere nudo, vede il sangue colare dal mento e dal petto, gocciolare e fluire sul pavimento, adesso scuro, vede il sangue scorrere come se qualcuno avesse capovolto un secchio di vernice rossa, e poi non vede più nulla, cade bocconi contro il pavimento lontano, lontanissimo, in basso.
6
Il corpo di Diana Philomel era perfetto quanto la scienza cosmetica e l'abilità di un ARNista permettevano. Al risveglio, rimasi disteso per alcuni minuti ad ammirarne il corpo girato dall'altra parte: la classica curva della schiena e del fianco offriva una geometria più bella e potente di qualsiasi cosa scoperta da Euclide, le due fossette visibili nella parte inferiore della schiena, appena sopra le natiche bianco latte, erano morbidi angoli intersecantisi, la parte posteriore delle cosce piene era in qualche modo più sensuale e solida di quanto possa sperare di essere qualsiasi aspetto dell'anatomia maschile.
Lady Diana era addormentata, o lo sembrava. I nostri abiti erano sparpagliati sull'ampio tappeto verde. Luce densa, colorata di rosso magenta e di blu, inondava ampie finestre dalle quali si scorgevano cime d'albero, grigie e oro. Larghi fogli di carta da disegno erano disseminati tutt'intorno, sotto e sopra i vestiti. Mi sporsi a sinistra, presi un foglio e guardai un abbozzo frettoloso di seni, cosce, un braccio ridisegnato in fretta, un viso senza lineamenti. Disegnare bozzetti dal vivo, quando si è ubriachi e sul punto di essere sedotti, non è una formula che produca arte di qualità.
Mandai un gemito, mi girai sulla schiena ed esaminai le volute ornamentali a intaglio sul soffitto alto quattro metri. Se la donna al mio fianco fosse stata Fanny, forse non avrei voluto più muovermi. Invece, scivolai da sotto le lenzuola, cercai il mio comlog, notai che era prima mattina su Tau Ceti Centro, quattordici ore dopo il mio appuntamento con il PFE, e andai in bagno per procurarmi una pillola contro i postumi di sbronza.