Poi era venuto Hyperion.
Durante il viaggio di ritorno dal sistema di Bressia, la nave ospedale del colonnello Fedmahn Kassad era stata attaccata da navi torcia Ouster. Solo Kassad era sopravvissuto, rubando una navetta Ouster e compiendo un atterraggio di fortuna su Hyperion. Nel continente Equus. Nei grandi deserti e nelle terre spoglie e isolate al di là della Briglia. Nella valle delle Tombe del Tempo. Nel regno dello Shrike.
E Moneta era stata lì ad aspettarlo. Avevano fatto l'amore… e quando gli Ouster era atterrati in forze per reclamare il prigioniero, Kassad e Moneta e lo Shrike, di cui solo s'intuiva la presenza, avevano distrutto le navi Ouster, annichilito le squadre d'atterraggio, massacrato i soldati. Per breve tempo il colonnello Fedmahn Kassad, nato nei bassifondi di Tharsis, figlio e nipote e pronipote di profughi, cittadino di Marte in tutti i sensi, aveva conosciuto la pura estasi di usare come arma il tempo, di muoversi, invisibile, fra i propri nemici, di essere un dio della distruzione in modi nemmeno sognati da guerrieri mortali.
Ma allora, proprio mentre avevano fatto l'amore, dopo il carnaio della battaglia, Moneta era cambiata. Era divenuta un mostro. Oppure lo Shrike aveva preso il posto della donna. Kassad non ricordava i particolari; non li avrebbe ricordati, se non avesse dovuto farlo per sopravvivere.
Ma sapeva di essere tornato su Hyperion per trovare lo Shrike e ucciderlo. Per trovare Moneta e ucciderla. Ucciderla? Non sapeva. Il colonnello Fedmahn Kassad sapeva solo che tutta la grande passione di una vita intensa l'aveva portato in quel luogo e in quel momento, e se la morte lo aspettava lì, pazienza. E se amore e gloria e una vittoria che avrebbe scosso il Valhalla lo aspettavano, pazienza.
Kassad abbassa con un colpo secco il visore, si alza ed esce di corsa dalla Tomba di Giada, urlando. Spara granate fumogene e avanza verso il Monolito, ma le granate offrono ben poca protezione nel tratto da percorrere. Qualcuno è ancora vivo e spara dalla torre; proiettili e pulsocariche esplodono lungo il percorso, mentre lui schiva e si tuffa da duna a duna, da un cumulo di macerie all'altro.
Le fléchettes gli colpiscono il casco e le gambe. Il visore si crepa e le spie luminose d'allarme si accendono. Battendo le palpebre, Kassad elimina il display tattico, lascia solo il sussidio per la visione notturna. Proiettili solidi ad alta velocità lo colpiscono alla spalla e al ginocchio. Kassad cade a terra. La tuta blindata s'irrigidisce, torna flessibile; lui si alza e riprende a correre, sente che già gli si formano lividi profondi. Il polimero camaleonte lavora a tutto spiano per imitare la terra di nessuno che Kassad attraversa: notte, fiamme, sabbia, cristallo fuso, pietra ardente.
A cinquanta metri dal Monolito, nastri di luce saettano a sinistra e a destra, con un semplice tocco mutano in vetro la sabbia, puntano su di lui a una velocità che niente e nessuno può scansare. I laser omicidi smettono di giocare con lui e vanno a segno, lo colpiscono al casco, al cuore, all'inguine, con il calore delle stelle. La tuta blindata brilla come uno specchio, cambia frequenze nel giro di microsecondi, per uguagliare i mutevoli colori dell'attacco. Un nimbo d'aria iperriscaldata circonda Kassad. I microcircuiti protestano per il sovraccarico, mentre rilasciano il calore e lavorano per costruire un campo di forza micrometrico che protegga carne e ossa.
Kassad lotta per percorrere i venti metri finali, usa il sussidio di energia per scavalcare a balzi le barriere di cristallo scorificato. Esplosioni eruttano da ogni lato, lo sbattono giù, lo sollevano di nuovo. La tuta è completamente rigida. Kassad è una bambola sbattuta fra mani di fiamma.
Il bombardamento termina. Kassad si alza sulle ginocchia, poi si tira in piedi. Solleva lo sguardo sulla facciata del Monolito di Cristallo: vede le fiamme e le fessure e poco altro. Il visore è crepato e morto. Kassad lo solleva, inspira fumo e aria ionizzata, entra nella tomba.
Gli impianti gli dicono che gli altri pellegrini lo chiamano su tutti i canali di trasmissione. Kassad spegne il ricevitore. Si toglie il casco e cammina nelle tenebre.
C'è una singola stanza, larga, quadrata, buia. Al centro si è aperto un pozzo e Kassad guarda in alto per un centinaio di metri, verso una chiazza di cielo illuminato. Una figura aspetta al decimo piano, sessanta metri più su, stagliata contro le fiamme.
Kassad si mette a tracolla il fucile, regge sottobraccio il casco, trova una scala a chiocciola nel centro del pozzo e comincia a salire.
14
— È riuscito a dormire un po'? — mi domandò Leigh Hunt, mentre entravamo nell'area di ricezione farcaster del Treetops.
— Sì.
— Ha fatto sogni piacevoli, mi auguro — disse Hunt, senza il minimo sforzo di celare il sarcasmo né la propria opinione su coloro che dormivano mentre chi muoveva e scuoteva il governo si dava da fare.
— Non particolarmente — risposi, guardandomi intorno mentre salivamo l'ampia scalinata verso i piani da pranzo.
In una Rete dove ogni città di ogni provincia di ogni paese su ogni continente pareva vantare un ristorante a quattro stelle, dove i veri buongustai si contavano a decine di milioni e i palati erano avvezzi a cibi esotici provenienti da duecento pianeti, perfino in una Rete così ricca di trionfi culinari e di ristoranti di successo, il Treetops emergeva solitario.
Posto in cima a una decina degli alberi più alti in un mondo di foreste gigantesche, il Treetops occupava diversi acri di rami a ottocento metri da terra. La scalinata che Hunt e io salivamo, larga in quel punto quattro metri, si perdeva nell'immensità di rami grandi come viali, di foglie ampie come vele e di un tronco principale (illuminato da faretti e appena intravisto fra gli squarci nel fogliame) più ripido e monumentale delle pareti di molte montagne. Il Treetops ospitava nei padiglioni superiori una ventina di piattaforme da pranzo, in ordine ascendente a seconda del rango, del privilegio, della ricchezza e del potere. Soprattutto potere. In una società in cui i miliardari erano quasi comuni, dove una colazione al Treetops costava anche mille marchi ma era alla portata di milioni di persone, l'arbitro finale della posizione e del privilegio era il potere… una moneta che non passa mai di moda.
La riunione serale si sarebbe tenuta sul ponte più alto, una piattaforma ampia e curva di legno weir (dal momento che non si può calpestare il sacro legno muir), con il panorama di cieli color limone prossimi al crepuscolo, un'infinità di cime di alberi minori che si estendevano all'orizzonte lontano, e le morbide luci arancione degli alberi-casa dei Templari e dei luoghi di culto che splendevano attraverso lontanissime pareti color verde, terra bruciata e ambra, formate dal fogliame in lieve movimento. Gli invitati alla cena erano una sessantina; riconobbi il senatore Kolchev, con i capelli bianchi che rilucevano sotto le lanterne giapponesi, e il consulente Albedo, il generale Morpurgo, l'ammiraglio Singh, il Presidente pro tempore Denzel-Hiat-Amin, lo Speaker della Totalità Gibbons, un'altra decina di senatori provenienti da potenti mondi della Rete come Sol Draconis Septem, Deneb Drei, Nordholm, Fuji, i due Rinascimento, Metaxas, Patto-Maui, Hebron, Nuova Terra e Ixion, oltre a una frotta di politici di minore importanza. C'era Spenser Reynolds, l'artista mimico, che sfoggiava un abito da sera di velluto marrone, ma non vidi altri rappresentanti del mondo dello spettacolo. Vidi invece Tyrena Wingreen-Feif, dalla parte opposta dell'affollata piattaforma; l'editrice diventata filantropo risaltava ancora in qualsiasi gruppo, con la lunga veste fatta di migliaia di petali di cuoio sottile come seta e capelli di un nero azzurrastro acconciati in un'alta onda; ma la veste era un Tedekai originale, il trucco era appariscente ma non interattivo e l'aspetto d'insieme era molto più sommesso di quanto non sarebbe stato solo cinque o sei decenni prima. Mi mossi nella sua direzione, mentre gli ospiti si mescolavano sulla penultima piattaforma, facevano rapide puntate ai numerosi bar e aspettavano la chiamata per la cena.