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— Va tutto bene — disse Luz. — Va tutto bene. Non preoccuparti. — Doveva alzare la voce, e si sentiva sciocca a ripetere la stessa cosa: ma serviva sempre, per un po’. Vera si riadagiava e stava tranquilla. Ma poi avrebbe cercato ancora di sollevarsi e avrebbe chiesto cosa stava succedendo, ansiosa e impaurita. Avrebbe chiesto di Lev: — Lev sta bene? Aveva la mano ferita. — E poi avrebbe detto che doveva tornare in città a casa Falco. Non avrebbe mai dovuto venire insieme agli uomini armati di moschetto: era colpa sua, perché aveva tanto desiderato tornare a casa. Se si fosse riconsegnata come ostaggio le cose sarebbero andate meglio, no? — Va tutto bene, non preoccuparti — disse Luz, a voce alta perché l’udito di Vera era lesionato. — Va tutto bene.

E infatti la gente andava a letto la sera e si alzava al mattino, preparava i pasti e li consumava, parlava: tutto continuava. Luz continuava a vivere. La sera andava a letto. Era difficile addormentarsi, e quando dormiva si svegliava nel buio, sfuggendo a un’orribile folla di gente che spingeva e urlava; ma questo non era vero. Non accadeva. Era accaduto. La stanza era buia e silenziosa. Era accaduto, era finito, e tutto continuava.

Il funerale dei diciassette che erano stati uccisi si svolsero due giorni dopo la marcia sulla città; alcuni dovevano essere sepolti nei loro villaggi, ma il raduno e il servizio, per tutti, si svolse alla Casa delle Riunioni. Luz sentiva che non sarebbe dovuta andare, che Andre e Southwind e gli altri si sarebbero sentiti più a loro agio se non fosse andata con loro. Disse che sarebbe rimasta con Vera, e la lasciarono fare. Ma dopo che era trascorso un po’ di tempo nel silenzio assoluto della casetta, in mezzo ai campi spazzati dalla pioggia, mentre Vera dormiva e Luz toglieva i semi dalle fibre dell’albero della seta, tanto per fare qualcosa, un uomo venne alla porta, un uomo esile dai capelli grigi. In un primo momento, Luz non lo riconobbe. — Sono Alexander Shults — disse. — Vera dorme? Vieni. Non dovevano lasciarti qui. — E la condusse alla Casa delle Riunioni, al termine del servizio funebre, e poi al cimitero, nella silenziosa processione che portava le dodici bare di Shantih. E Luz, avvolta nello scialle nero, sotto la pioggia, stette accanto alla tomba, al fianco del padre di Lev. Gli era grata, anche se non gli diceva nulla e lui non diceva nulla a lei.

Luz e Southwind lavoravano ogni giorno nel campo di patate di Southwind, perché era necessario raccogliere le patate altrimenti entro pochi giorni avrebbero cominciato a marcire nella terra fradicia. Lavoravano insieme quando Vera dormiva; e facevano a turno, una nel campo e l’altra in casa, quando lei era sveglia e aveva bisogno di avere qualcuno accanto. Spesso venivano la madre di Southwind e la grossa ed efficiente Italia, amica di Southwind; e Andre veniva una volta al giorno, sebbene anche lui dovesse lavorare nei campi e trascorrere ogni giorno un po’ di tempo nella Casa delle Riunioni con Elia e gli altri. Elia era il responsabile: era Elia, adesso, che parlava con gli uomini della città. Andre riferiva a Luz e a Southwind ciò che era stato detto e fatto; non esprimeva le proprie opinioni; Luz non sapeva se approvava o disapprovava. Tutte le opinioni, le convinzioni, le teorie, i principii, tutto era scomparso, travolto, morto. Il greve, vinto dolore della grande folla al funerale era l’unica cosa rimasta. Diciassette morti di Shantih, là sulla strada; otto morti della città. Erano morti in nome della pace, ma avevano anche ucciso in nome della pace. Tutto era crollato. Gli occhi di Andre erano scuri come carboni. Scherzava per rincuorare Southwind (e Luz vedeva, come ora vedeva tutto, spassionatamente, che Andre era innamorato da tempo di Southwind), e le due giovani donne sorridevano delle sue battute e cercavano d’indurlo a riposare un po’, lì con loro e Vera. Luz e Southwind lavoravano insieme, il pomeriggio, nei campi. Le patate erano piccole, sode e pulite, e uscivano dal fango con la loro finissima trina di radici. C’era un certo piacere nel lavoro dei campi; in tutto il resto non ce n’era molto.

Di tanto in tanto Luz pensava: "tutto ciò non sta accadendo davvero," perché le sembrava che quanto accadeva fosse soltanto un’immagine, come un gioco d’ombre dietro il quale stava la realtà. Era uno spettacolo di marionette. Era tutto così strano, in fondo. Cosa faceva, lei, in un campo, nel pomeriggio inoltrato, sotto l’acquerugiola scura, con un paio di calzoni rattoppati, infangata fino alle cosce e ai gomiti, a raccogliere le patate per Shantih? Non doveva far altro che andarsene e tornare a casa. La gonna azzurra e la camicetta ricamata erano appese, pulite e ben stirate, nell’armadio del suo spogliatoio; Teresa le avrebbe portato l’acqua calda per il bagno. Con quel tempo, nel camino all’estremità ovest del salone di casa Falco dovevano esserci grossi ciocchi e un fuoco che ardeva allegramente. Oltre gli spessi vetri delle finestre, la sera si faceva sempre più blu sopra la baia. Sarebbe passato il medico a fare due chiacchiere, insieme al suo vecchio amico Valera; oppure il vecchio consigliere Di Giulio, per fare una partita a scacchi con Don Luis…

No. Quelle erano le marionette, piccole e colorate marionette della mente. Quello non esisteva; la realtà era lì: le patate, il fango, la voce sommessa di Southwind, il volto gonfio e chiazzato di Vera, lo scricchiolio del materasso di paglia sul soppalco di quella casupola a Shantih, nell’oscurità e nel silenzio della notte. Era strano, era tutto sbagliato, ma era tutto ciò che restava.

Vera migliorava. Jewel, il medico, diceva che gli effetti della commozione cerebrale erano cessati: doveva rimanere a letto almeno per un’altra settimana, ma si sarebbe ripresa. Vera chiese qualcosa da fare. Southwind le portò da filare un grande canestro di lancotone raccolto dagli alberi selvatici nella Valle Rossa.

Elia si affacciò sulla porta. Le tre donne avevano appena terminato il pasto di mezzogiorno. Southwind lavava i piatti, Luz aveva finito di sparecchiare. Vera — appoggiata al cuscino — stava legando al fuso il capo di un filo. Elia era pulito "come le minuscole patate", pensò Luz, "con quella faccia tonda e gli occhi celesti". La voce era inaspettatamente profonda, ma molto gentile. Si sedette accanto al tavolo e parlò, soprattutto a Vera. — Va tutto bene — le disse. — Va tutto bene.

Vera parlava poco. La parte sinistra del volto era ancora sfigurata e livida, dov’era stata calpestata o colpita, ma lei la piegava in avanti per ascoltare: il timpano destro era rotto. Si assestò sul cuscino, cominciò a far prillare il fuso, e annuì mentre Elia parlava. Luz non prestava grande attenzione a quello che lui diceva. Andre aveva già riferito tutto: gli ostaggi erano stati liberati; erano state concordate le condizioni per la collaborazione tra la città e il paese, e per uno scambio più equo — in attrezzi e pesce secco — per i generi alimentari forniti dal paese; ora stavano discutendo un piano per la colonizzazione congiunta della Valle Sud: squadre della città avrebbero disboscato il terreno, e poi i coloni volontari del paese si sarebbero insediati per cominciare a coltivarlo.

— E la colonia al nord? — chiese Vera, con quel suo sommesso filo di voce.

Elia si guardò le mani. Infine disse: — Era un sogno.

— Era tutto un sogno, Elia?

La voce di Vera era cambiata: Luz ascoltò, riponendo le ciotole.

— No! — disse lui. — No! Ma troppo, e troppo presto… troppo in fretta, Vera. Abbiamo puntato troppo e avventatamente su un atto di sfida aperta.

— Una sfida meno evidente sarebbe stata meglio?

— No. Ma lo scontro è stato un errore. Collaborare, discutere… ragionare. L’avevo detto, a Lev… Avevo sempre cercato di dire…

C’erano lacrime negli occhi di Elia, notò Luz. Ripose ordinatamente le ciotole nella credenza e si sedette accanto al focolare.


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