Non poteva solo fronteggiarla, ma doveva combatterla appena insorgeva: altrimenti la paura avrebbe cancellato tutto e lei avrebbe perso completamente il potere di scegliere. Doveva lottare alla cieca, perché contro quella paura la ragione non serviva. Era molto più antica e più forte delle idee.

C’era l’idea di Dio. Nella città parlavano di Dio ai bambini. Dio aveva creato tutti i mondi, e puniva i malvagi, e quando i buoni morivano li mandava in paradiso. Il paradiso era una casa bellissima dal tetto d’oro dove Meria, la madre di Dio, la madre di tutti, attendeva teneramente le anime dei morti. A Luz quella storia era piaciuta. Da piccola pregava Dio perché facesse accadere o non facesse accadere certe cose, dato che lui poteva fare tutto quello che gli si chiedeva; in seguito aveva immaginato che la madre di Dio e sua madre vivessero nella stessa casa. Ma quando, lì, pensava al paradiso, questo era piccolo e lontano come la città. Non aveva nulla in comune col territorio selvaggio. Lì non c’era Dio: Dio apparteneva alla gente, e dove non c’era la gente non c’era Dio. Anche al funerale di Lev e degli altri avevano parlato di Dio: ma era stato laggiù, laggiù. Lì non c’era nulla di simile. Nessuno aveva creato quel territorio selvaggio, e lì non c’erano né male né bene. Esisteva, semplicemente.

Con un fuscello spinoso tracciò un cerchio nel sabbioso terreno accanto al suo piede, cercando di farlo perfetto. Quel cerchio era un mondo, o un io, o Dio: poteva essere qualunque cosa. Nient’altro, nel territorio disabitato, poteva pensare a un cerchio come quello… Luz pensò al delicato anello d’oro intorno al vetro della bussola. Poiché era umana aveva mente e occhi per concepire l’idea di un cerchio, e un’abile mano per tracciare l’idea. Ma ogni goccia d’acqua che cadeva da una foglia in uno stagno o in una pozzanghera sapeva tracciare un cerchio ancor più perfetto, che fuggiva lontano dal centro: e se l’acqua non avesse avuto confini il cerchio sarebbe fuggito verso l’esterno, per sempre, sempre più lieve, sempre più ampio. Lei non poteva fare ciò che poteva fare ogni goccia d’acqua. Cosa c’era dentro il suo cerchio? Granelli di sabbia, polvere, qualche sassolino, una spina semisepolta, lo stanco volto di Andre, il suono della voce di Southwind, gli occhi di Sasha che erano così simili agli occhi di Lev, l’indolenzimento delle spalle sotto la pressione delle cinghie dello zaino, e la sua paura. Il cerchio non poteva escludere la paura. E la mano cancellò il cerchio, spianando la sabbia, lasciandola com’era e come sarebbe sempre stata dopo che loro fossero ripartiti.

— All’inizio mi sembrava di abbandonare Timmo — disse Southwind, guardandosi la più grossa vescica del piede sinistro. — Quando abbiamo lasciato la casa. L’avevamo costruita io e lui, sai. Avevo l’impressione di lasciarlo per sempre, di abbandonarlo. Ma ora non mi sembra più così. È stato qui che è morto, nei territori disabitati. Non qui, lo so: molto più a nord. Ma non lo sento più terribilmente lontano, come tutto l’autunno, quando vivevo nella nostra casa: mi sembra di essere partita per raggiungerlo. No, non per morire, non è questo che intendo. Ma là pensavo soltanto alla sua morte, e invece qui, mentre camminiamo, penso a lui vivo. Come se fosse con me, ora.

Si erano accampati in una sella ai piedi delle rosse colline, in riva a un vivace ruscello sassoso. Avevano acceso i fuochi, e cucinato, e mangiato; molti si erano già avvolti nelle coperte per dormire. Non era ancora buio, ma faceva così freddo che se non ci si muoveva ci si doveva rannicchiare accanto al fuoco o coprirsi per dormire. Le prime cinque notti non avevano acceso fuochi per timore degl’inseguitori, ed erano state notti desolate: Luz non aveva mai conosciuto una gioia più pura di quando avevano acceso il primo fuoco, in un grande cerchio d’alberi, sul pendio meridionale delle maleterre; e ogni notte quel piacere si ripeteva, il supremo lusso del vitto bollente e del calore. Le tre famiglie con le quali lei e Southwind si accampavano e cucinavano si stavano preparando a passare la notte; il figlio più giovane — il più giovane degli emigranti, un ragazzetto di undici anni — era già raggomitolato nella sua coperta come un pipistrello marsupiale e dormiva profondamente. Luz badava al fuoco, mentre Southwind si curava le vesciche. Sulla riva del ruscello c’erano altri sette fuochi, e il più lontano sembrava la fiamma di una candela nella semioscurità grigioazzurra, una tremula chiazza d’oro. Il mormorio del ruscello copriva il suono delle voci intorno agli altri fuochi.

— Vado a prendere un po’ di legna — disse Luz. Non stava cercando di evitare di rispondere a ciò che aveva detto Southwind. Non era necessaria una risposta. Southwind era gentile e perfetta: dava e parlava senza attendere nulla in cambio; in tutto il mondo non poteva esistere una compagna meno esigente o più incoraggiante.

Quel giorno avevano percorso un lungo tratto, ventisette chilometri secondo la stima di Martin; erano usciti dal desolato labirinto da incubo; avevano consumato un pasto caldo, il fuoco ardeva, e non pioveva. Perfino l’indolenzimento nelle spalle di Luz era piacevole (perché non c’era il peso dello zaino), quando lei si alzò. Erano quei momenti al termine della giornata, accanto al fuoco, a controbilanciare i lunghi pomeriggi di marcia, quando lei cercava invano di alleviare l’oppressione delle cinghie dello zaino, e le ore nel fango e nella pioggia, quando sembrava che non ci fosse una ragione per andare avanti, e le ore peggiori, nell’oscurità della notte, quando lei si svegliava sempre dopo il medesimo brutto sogno: c’era un cerchio di cose, non di esseri umani, intorno al loro campo, che invisibili nell’oscurità, li osservavano.

— Questa va meglio — disse Southwind, quando Luz tornò con una bracciata di legna raccolta sul pendio. — Ma la vescica nel calcagno no. Sai, per tutta la giornata ho avuto la sensazione che non siamo seguiti.

— Non credo che lo siamo mai stati — replicò Luz, aggiungendo legna al fuoco. — Non ho mai pensato che se ne sarebbero curati, anche ammesso che l’abbiano scoperto. Nella città non vogliono pensare ai territori selvaggi. Vogliono fingere che non esistano.

— Lo spero. Non sopportavo la sensazione di fuggire. È molto meglio sentirsi veri esploratori.

Luz regolò il fuoco in modo che desse calore senza gettare fiamme troppo alte, e si acquattò ad assorbirne per un po’ il tepore.

— Sento la mancanza di Vera — disse. Aveva la gola inaridita dalla polvere, e in quei giorni non usava spesso la voce: sembrava che avesse un suono asciutto e aspro, come la voce di suo padre.

— Verrà col secondo gruppo — disse Southwind, con tranquilla sicurezza, avvolgendo un pezzo di tela intorno al piede e annodandolo alla caviglia. — Ah, così va meglio. Domani mi fascerò i piedi, come fa Holdfast. Staranno anche più caldi.

— Purché non piova.

— Non pioverà, stanotte. — La gente di Shantih conosceva il tempo molto meglio di Luz. Loro non erano vissuti al chiuso come lei, e sapevano cosa preannunciava il vento: perfino lì, dove i venti erano diversi.

— Potrebbe piovere domani — disse Southwind, infilandosi sotto la coperta. La sua voce era già smorzata, più calda.

— Domani saremo sulle colline — osservò Luz. Alzò lo sguardo verso est, ma il pendio della valle e la semioscurità grigiazzurra nascondevano quel profilo roccioso. Le nubi si erano diradate; una stella brillò per qualche istante, alta, a oriente, piccola e nebbiosa, poi svanì quando le invisibili nubi si ricongiunsero. Luz attese che riapparisse, ma non riapparve. Si sentì delusa, scioccamente. Adesso il cielo era buio, e il suolo era buio. Non c’erano altre luci che le otto chiazze dorate, i loro fuochi, una minuscola costellazione nella notte. E lontano, a molti giorni di cammino, migliaia e migliaia di passi dietro di loro, a ovest, oltre i labirinti di arbusti e oltre le maleterre e le colline e le valli e i ruscelli, in riva al grande fiume che si gettava nel mare, altre luci: la città e il paese, un minuscolo grappolo di finestre illuminate di giallo. Il buio fiume che scorreva nell’oscurità. E nessuna luce sul mare.


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