Gubu le andò incontro, zampettando e dandole dei colpetti morbidi sulle gambe e sulle mani, agitando la corta coda nodosa dalle macchiette nere. Gli aveva lasciato la porta aperta, gli bastava spingere. Era socchiusa. Per tutta la stanza erano sparse piume di qualche specie di uccellino, e sul tappetino del focolare trovò una chiazza di sangue e qualche viscere. «Mostro,» gli disse. «Vai fuori ad ammazzare!» Lui fece la sua danza di guerra e gridò Uuuh! Uuuh! Gubu dormì tutta la notte rannicchiato contro il fondoschiena di Yoss, e ogni volta che lei si girava era obbligato ad alzarsi per scavalcarla e rannicchiarsi dall'altra parte.

Lei si girò di frequente, immaginandosi o sognando il peso e il calore di un corpo massiccio, il peso delle mani sui suoi seni, labbra che le tiravano i capezzoli, succhiando la vita.

Accorciò le sue visite ad Abberkam. Il Capo era già capace di alzarsi, di badare alle sue cose, di prepararsi la colazione. Lei gli teneva rifornita la scatola della torba presso il camino, e la dispensa piena, e adesso gli portava la cena ma non si fermava a mangiare con lui. Lui restava quasi sempre serio e silenzioso, e lei stava attenta a quel che diceva. Stavano in guardia. Le mancavano le ore nella stanza a occidente al piano di sopra, ma era acqua passata, una specie di sogno, una dolcezza scomparsa.

Un pomeriggio Eyid arrivò da sola alla casa di Yoss, cupa in volto. «Credo che non tornerò più qua,» le disse.

«Che è successo?»

La fanciulla si strinse nelle spalle.

«Vi sorvegliano?»

«No. Non lo so. Sa, potrei… Potrei essere pregna.» Usava il vecchio termine da schiavi per "incinta".

«Hai usato i contraccettivi, vero?» Li aveva comprati a Veo per la coppietta, in gran quantità.

Eyid fece un cenno vago col capo. «Credo sia un errore,» disse, imbronciando il labbro.

«Fare l'amore? Usare anticoncezionali?»

«Credo sia un errore,» ripeté la ragazza, con una fulminea occhiata rancorosa.

«Va bene,» fece Yoss.

Eyid si voltò.

«Arrivederci, Eyid.»

Senza una parola, Eyid si avviò per il sentiero.

Tienti stretta l'unica cosa nobile che esiste, pensò amareggiata Yoss.

Andò dietro la casa, alla tomba di Tikuli, ma faceva troppo freddo per star fuori a lungo, un freddo uniforme, doloroso, da mezzo inverno. Entrò e chiuse la porta. La stanza sembrava piccola e buia e bassa. Lo stento fuoco di torba era basso e fumoso. Nel bruciare non faceva alcun rumore. Non c'era il minimo suono fuori dalla casa. Il vento era calato, le canne intirizzite dal gelo erano immobili.

Voglio della legna, voglio un fuoco di legna, pensò Yoss. Una fiamma guizzante e scoppiettante, un fuoco presso cui raccontare una storia, come facevamo nella casa delle nonne alla piantagione.

Il giorno dopo risalì un sentiero di palude per andare a una casa in rovina a meno di un chilometro di distanza, dove staccò qualche asse dal portico crollato. Quella sera il suo camino ospitò una fiamma rombante. Cominciò ad andare alla casa in rovina una o più volte al giorno, e ammassò una catasta considerevole accanto al mucchio di torba, nell'angolo del camino opposto alla rientranza dove c'era il suo letto. Non andava più da Abberkam. Lui si era ripreso, e lei voleva una meta. Non aveva modo di tagliare le assi più lunghe, perciò le spingeva nel fuoco un pezzo per volta. Così un'asse durava tutta una serata. Sedeva accanto al fuoco brillante e cercava di leggere il primo libro dell'Arkamye. Certe volte Gubu stava sdraiato sulla pietra del focolare a guardare la fiamma, sussurrando pure lui, ron, ron, e ogni tanto s'addormentava. Odiava così tanto addentrarsi nei canneti ghiacciati che lei gli aveva fatto una cassetta per i bisogni nel retrocucina, e lui se ne serviva metodico.

Il freddo non accennava a calare, il peggior inverno che avesse mai dovuto affrontare nelle paludi. Gli spifferi crudeli la guidavano a crepe nelle pareti di legno di cui era ignara. Non avendo stracci con cui tapparle, utilizzava fango e canne pressate. Se lasciava che il fuoco si spegnesse, la casetta diventava una ghiacciaia nel giro di un'ora. Il fuoco di torba, ben disposto, le faceva passare la nottata. Anche di giorno metteva spesso un pezzo di legno, solo per la fiamma, la luce, la compagnia.

Doveva andare al villaggio. Aveva smesso di andarci per un po' di giorni, sperando che la morsa del gelo s'allentasse, e così aveva finito praticamente tutto. Faceva freddo più che mai. I blocchi di torba che bruciavano nel camino in quel momento erano tutto terriccio e bruciavano male, con una fiamma stenta, così ci mise in mezzo un pezzo di legno per tenere vivo il fuoco e calda la casa. Si mise addosso ogni giacca e scialle che aveva, poi partì con la sporta. Gubu la guardò ammiccando dal focolare. «Stai pur comodo,» gli disse. «Che bestia saggia.»

Il freddo era spaventoso. Yoss pensò che, se fosse mai scivolata sul ghiaccio rompendosi una gamba, non sarebbe passato nessuno per giorni. Se cado, mi assidero in poche ore. Bene bene bene, sono nelle mani del Signore, e tanto nel giro di pochi anni muoio comunque. Signore, lascia almeno che arrivi al villaggio a scaldarmi!

Ci arrivò, e passò parecchie ore presso la stufa del pasticcere a raccogliere pettegolezzi, e presso la stufa a legna del giornalaio a leggere vecchi giornali su una nuova guerra nella provincia d'Oriente. Le zie di Eyid e il padre, la madre e le zie di Wada le chiesero tutti come stava il Capo. Le dissero anche di andare dal suo padrone di casa, perché Kebi aveva qualcosa per lei. Per lei Kebi aveva un pacchetto di mediocre tè da quattro soldi. Perfettamente disposta a far sì che il suo padrone di casa si arricchisse l'anima, Yoss lo ringraziò per il tè. Lui le chiese di Abberkam. Il Capo era stato malato? E adesso stava meglio? Lui ficcanasò, lei gli rispose con indifferenza. È facile vivere in silenzio, si disse, quel che mi è difficile è convivere con queste voci.

Detestava l'idea di lasciare quella stanza calda, ma la sporta era più pesante di quel che gradiva trasportare, e i tratti ghiacciati sulla strada sarebbero stati difficili da distinguere col calar del sole. Si accomiatò e attraversò di nuovo il villaggio per tornare alla passerella. Era più tardi di quel che avesse pensato. Il sole era piuttosto basso, nascosto dietro uno sbarramento di nubi in un cielo già cupo, come se lesinasse anche soltanto una mezz'ora di calore e di luce. Voleva tornare a casa al suo fuocherello, e così si avviò di buon passo.

Mentre teneva lo sguardo fisso davanti a sé per timore del ghiaccio, in un primo momento sentì soltanto la voce. La conosceva, e credette che Abberkam fosse impazzito di nuovo! Perché le stava correndo incontro tra le urla. Si fermò intimorita, ma lui stava gridando il suo nome. «Yoss! Yoss! È tutto a posto!» gridava andandole dritto incontro, un omone invasato, tutto sporco, infangato, ghiaccio e terra nei capelli grigi, le mani nere, e gli si riusciva a vedere persino il bianco degli occhi.

«Vattene,» gli disse, «stammi lontano, stai lontano da me!»

«D'accordo,» fece lui, «ma la casa, la casa…»

«Che casa?»

«Casa tua, è bruciata. L'ho vista, stavo venendo al villaggio quando ho visto il fumo in mezzo alle paludi…»

Lui proseguì a parlare, ma Yoss rimase come paralizzata, senza prestare più ascolto. Aveva chiuso la porta, lasciando cadere il saliscendi. Non aveva chiuso a chiave, ma il saliscendi era scattato, e Gubu non sarebbe mai riuscito a uscire. Era in casa. Chiuso dentro. Quegli occhi accesi, disperati, la vocetta che gridava…

Yoss scattò in avanti. Abberkam la bloccò.

«Lasciami passare,» gli disse. «Devo passare.» Poi posò la sporta e cominciò a correre.

Il Capo la prese per il braccio, Yoss fu bloccata quasi come da un'onda del mare, fu costretta a girarsi. Il corpo enorme e quella voce l'attorniavano. «Tutto a posto, il gattino sta bene, è a casa mia,» stava dicendo. «Yoss! La casa è andata a fuoco. Il gattino sta bene.»


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