Dopo un po', Yoss disse, «Ho una figlia, e un nipote e una nipote. Hanno lasciato questo mondo quattro anni fa. Sono su una nave diretta verso Hain. Gli anni che mi restano da vivere per loro sono solo pochi minuti, un'ora. Ci arriveranno dopo ottant'anni di viaggio, tra settantasei anni. A quell'altra terra. Vivranno e moriranno là. Non qui.»

«Tu volevi che partissero?»

«È stata una scelta loro.»

«Non tua.»

«Non sono io a vivere la loro vita.»

«Ma ti dispiace,» disse Abberkam.

Il silenzio che cadde tra loro fu pesante.

«È sbagliato, sbagliato, sbagliato!» sbottò lui, con voce forte e sonora. «Avevamo il nostro destino, la nostra strada verso il Signore, e ce l'hanno sottratto, siamo di nuovo schiavi! I saggi Alieni, gli scienziati con tutto il loro sapere e le loro invenzioni, i nostri antenati, come si definiscono… "Fai questo!" ordinano, e lo facciamo. "Fai quello!" e lo facciamo. "Portate i vostri figli su una magnifica astronave e volate verso i nostri mondi magnifici!" E imbarchiamo i nostri figli, che non torneranno mai più a casa. Non conosceranno mai la loro casa. Non sapranno mai chi sono. Non sapranno mai quali mani li potevano stringere.»

Stava tenendo un comizio. Per quanto lei avesse capito che era un discorso che doveva aver già pronunciato un centinaio di volte, così pomposo e declamatorio, aveva le lacrime agli occhi. E anche lui aveva le lacrime agli occhi. Non gli avrebbe mai permesso di servirsi di lei, di giocare con lei, di aver potere su di lei.

«Anche se fossi d'accordo con te, perché allora hai mentito, Abberkam?» gli disse. «Hai mentito al tuo popolo, hai rubato!»

«Mai. Tutto quel che ho fatto, sempre, ogni mio respiro è stato per il Partito Mondiale. Sì, ho speso dei soldi, tutti quelli che trovavo, ma per cosa se non per la causa? Sì, ho minacciato il Nunzio, volevo cacciare lui e tutti gli altri da questo mondo! Sì, gli ho mentito, perché ci vogliono controllare, ci vogliono possedere, e io farei di tutto per salvare la mia gente dalla schiavitù… di tutto!»

Abbatté i pugni massicci sulle ginocchia, poi si fermò per riprendere fiato, singhiozzante.

«E non ci posso fare nulla, Kamye!» gridò, nascondendo il viso tra le braccia.

Poi rimase in silenzio, sconvolto.

Dopo molto tempo si passò le mani sul volto, come un bambino, si ravviò i capelli ribelli e stopposi, si stropicciò occhi e naso, poi raccolse il vassoio e se lo appoggiò sulle ginocchia, prese la forchetta, tagliò un pezzetto di frittella di fagioli, se lo infilò in bocca, masticò e inghiottì. Se può lui posso anch'io, pensò Yoss, e l'imitò. Finirono la cena. Yoss si alzò per andare a prendere il vassoio. «Mi dispiace,» disse.

«Allora era già finito,» disse il Capo con un filo di voce. La guardò dritto in faccia, la vide, e lei capì che lo faceva di rado.

Rimase immobile, senza comprendere, in attesa.

«Era già finito, allora. Da anni. Ciò di cui ero convinto ai tempi di Nadami. Che ci bastasse scacciarli per essere liberi. Ci siamo persi nel prosieguo infinito della guerra. Sapevo che era una menzogna. Che importava se mentivo ancora?»

Lei capì soltanto che era terribilmente sconvolto e forse anche fuori di senno, e che aveva sbagliato a provocarlo. Erano vecchi tutt'e due, entrambi sconfitti, entrambi avevano perso i propri figli. Perché desiderava tanto ferirlo? Gli posò la mano sulla sua per un attimo, in silenzio, prima di raccogliere il vassoio.

Mentre lavava i piatti nell'acquaio, lui la chiamò. «Vieni qui, per favore!» Non s'era mai comportato in quel modo, così lei tornò di corsa nella stanza.

«Tu chi eri?» le domandò.

Rimase immobile a fissarlo.

«Prima di venire qui,» aggiunse lui impaziente.

«Sono partita dalla piantagione per fare il tirocinio,» gli spiegò. «Vivevo in città. Insegnavo fisica. Gestivo l'insegnamento della scienza nelle scuole. Ho educato io mia figlia.»

«Come ti chiami?»

«Yoss. Tribù di Seddewi, da Banni.»

Lui fece un cenno col capo, e dopo un altro secondo Yoss tornò in cucina. Non sapeva nemmeno come mi chiamo, pensò.

Ogni giorno lo costringeva ad alzarsi, a camminare un poco, a stare seduto. Lui obbediva, ma era stanco. Il pomeriggio seguente lo fece camminare a lungo, e quando lui tornò a letto chiuse subito gli occhi. Yoss scivolò lungo le scale scricchiolanti verso la stanza con le finestre a occidente, dove rimase seduta a lungo in perfetta quiete.

Mentre preparava la cena, lo fece sedere sulla seggiola. Parlava, per tirarlo su di morale, perché lui non si lamentava mai delle sue pretese, eppure sembrava tetro e pensieroso, e Yoss non si dava pace di averlo turbato il giorno prima. Non erano forse lì entrambi per lasciarsi alle spalle tutte quelle storie, tutti i loro errori e fallimenti, come pure gli amori e le vittorie? Gli parlò di Wada e di Eyid, tirando per le lunghe la storia degli amanti sfortunati, che erano appunto nel letto di casa sua proprio quel pomeriggio. «Non avevo nessun posto dove andare quando venivano,» disse. «Poteva essere piuttosto spiacevole, in giornate fredde come questa. Mi toccava gironzolare per le botteghe del villaggio. Devo ammettere che così è meglio. Questa casa mi piace.»

Lui grugnì e poco altro, ma lei capì che la stava ascoltando con attenzione, quasi che stesse cercando di capire, come uno straniero che non comprendesse la lingua.

«A te non importa niente della casa, vero?» proseguì Yoss ridendo, mentre versava la minestra. «Almeno sei onesto. Eccomi qui che faccio finta di essere una santa, di rifarmi un'anima, e mi interesso alle cose, mi ci attacco, le amo.» Si sedette a mangiare la zuppa accanto al fuoco. «Sopra c'è una bella stanza,» aggiunse. «La stanza d'angolo sul davanti, quella che dà a ovest. Dev'esserci successo qualcosa di bello in quella camera, forse un tempo ci vivevano due persone innamorate. Mi piace guardare le paludi da lì.»

Quando fu pronta per uscire, lui le chiese, «Se ne saranno già andati?»

«I cerbiatti? Oh, sì. Da un pezzo. Dalle loro famiglie piene d'odio. Immagino che, se potessero abitare assieme sul serio, anche loro sarebbero presto pieni d'odio. Sono tanto ignoranti. Come possono farne a meno? Il villaggio è abitato da gente dalla mente ristretta, sono tanto poveri. Però si aggrappano al loro amore come se lo sapessero… era questa la loro verità…»

«Tienti stretta l'unica cosa nobile che esiste,» disse Abberkam. Lei conosceva già la citazione.

«Vuoi che ti legga qualcosa?» gli domandò. «Ho l'Arkamye, me lo posso portare dietro.»

Lui scrollò il capo, con un improvviso sorriso franco. «Non serve, lo conosco,» rispose.

«Tutto?»

Lui fece segno di sì.

«Quando sono arrivata qui volevo impararlo a memoria, almeno in parte. Ma non l'ho mai fatto. Sembra non ci sia mai il tempo. Tu l'hai imparato qui?»

«Tanto tempo fa. In prigione. A Gebba. Là c'era un sacco di tempo… Adesso me ne sto qui e me lo recito.» Il suo sorriso indugiò mentre la guardava. «Mi fa compagnia in tua assenza.»

Lei rimase senza parole.

«La tua presenza mi è dolce,» le confessò.

Yoss si avvolse nello scialle e corse fuori quasi senza salutare.

Tornò a casa in mezzo a una ridda di sensazioni confuse e conflittuali. Che mostro che era quell'uomo! Le faceva il filo, non c'era alcun dubbio. Anzi, quella era un'avance. Se ne stava sdraiato nel letto come un grosso bue abbattuto, con un fischio nei polmoni e i capelli ingrigiti! Quella voce profonda e morbida, quel sorriso, sapeva come servirsi di quel sorriso, sapeva come centellinarlo. Sapeva come circuire una donna, se era vero quel che si diceva ne aveva circuite un migliaio, circuite e possedute e scartate, eccoti un po' di sperma per ricordarti del tuo Capo, e ciao ciao, bambina. Ossignore!

E allora perché le era saltato in testa di raccontargli di Eyid e Wada che stavano nel suo letto? Che donnetta stupida, si disse mentre avanzava in mezzo a quel maligno vento da oriente che spazzava i canneti grigi. Stupida, stupida vecchia.


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