Havzhiva seguì il consiglio, pensando che il parco doveva esser chiuso per qualche cerimonia o sistemazione di piante. Sbucato in una piazza dove era in pieno svolgimento un mercato, si rese conto che rischiava di ritrovarsi preso in mezzo a una folla di curiosi. La gente non poteva fare a meno di notarlo. Indossava i bei capi di vestiario di Yeowe: corpetto, pantaloni, un mantello corto e leggero, ma era l'unica persona dalla pelle color bruno-rossiccio in una città di quattrocentomila abitanti. Appena vedevano la sua pelle, i suoi occhi, capivano subito chi era: lo Straniero! Così sgusciò via dal mercato e passeggiò per tranquille strade residenziali, gustando l'aria lieve e tiepida e il magnifico stile coloniale e decadente delle abitazioni. Si soffermò ad ammirare un ornato tempio tualita. Aveva una certa atmosfera di incuria e di abbandono, ma sulla soglia c'era, come notò, un mazzo votivo di fiori ai piedi dell'immagine della Madre. Nonostante il naso fosse stato mozzato durante la guerra, la Madre sorrideva serena, gli occhi un po' strabici. Sentì uno schiamazzo alle sue spalle. Qualcuno gli intimò, da vicino, «Fuori dal nostro mondo, straniero di merda!» Fu afferrato per un braccio, mentre le gambe gli venivano sollevate da sotto il corpo a forza di calci. Facce stravolte, urlanti, incombevano su di lui. Un forte crampo doloroso lo percorse tutto, facendolo sprofondare ancora di più in una rossa oscurità di lotta, di grida e di dolore, poi fu un confuso dissolversi di luci e di suoni.
Una vecchia sedeva accanto a lui mormorando una nenia stonata che gli suonava vagamente familiare.
Stava lavorando a maglia. Per molto tempo non lo guardò, e quando lo fece si lasciò sfuggire un, «Ah!» Lui ebbe difficoltà a mettere a fuoco l'immagine, ma riuscì a distinguere il viso azzurrognolo della vecchia, d'una carnagione molto pallida, e gli occhi scuri, privi di bianco.
La donna sistemò una specie di apparecchio a cui lui era collegato da qualche parte, poi disse, «Sono la guaritrice, l'infermiera. Lei ha subito uno choc, ha un lieve trauma cranico, un rene lesionato, una ferita da coltello all'addome, ma andrà tutto a posto, non si preoccupi». Tutto questo era stato detto in una lingua straniera, che gli sembrava di capire. Di sicuro capì il "non si preoccupi" e seguì il consiglio.
Pensò di essere a bordo del Terrazze di Darranda su coordinate NAFAL. Cent'anni trascorsero come in un brutto sogno, ma non erano trascorsi. Persone e orologi non avevano faccia. Cercò di mormorare il Canto della Permanenza, ma non trovò le parole. Erano scomparse. La vecchia gli prese la mano, la trattenne, e piano piano lo riportò nel tempo, in quel tempo, nella quieta oscurità della stanza dove era seduta a lavorare a maglia.
La calda luce del mattino entrava dalla finestra. Il Capo della regione di Yotebber era in piedi accanto al suo letto, torreggiante nei suoi panni bianchi e porpora.
«Mi dispiace,» disse Havzhiva lentamente e a fatica a causa di una ferita alla bocca. «È stato stupido da parte mia uscire da solo. La colpa è stata solo mia.»
«Quei delinquenti sono stati presi, saranno giudicati da un tribunale,» disse il Capo.
«Erano dei ragazzi!» protestò Havzhiva. «Sono state solo la mia ignoranza e la mia follia a provocare l'incidente.»
«Saranno puniti,» asserì il Capo.
Le infermiere di giorno tenevano sempre acceso l'oloschermo per seguire i notiziari e gli sceneggiati mentre sedevano con lui. Tenevano il volume basso, e Havzhiva poteva anche non ascoltare. Era un pomeriggio caldo. Stava guardando vaghe nuvole muoversi lentamente nel cielo quando l'infermiera disse, chiamandolo col titolo formale riservato alle persone di alto rango, «Oh, presto! Se Sua Eccellenza lo desidera, può assistere alla punizione di quegli infami che l'hanno aggredita!»
Havzhiva obbedì. Vide un esile corpo umano appeso per i piedi le braccia e le mani che si agitavano in modo spasmodico, le interiora che si rovesciavano sul petto e sulla faccia. Urlò con quanto fiato aveva in corpo e si nascose il viso tra le mani. «Spegnete!» supplicò. «Spegnete!» Ebbe un conato di vomito e si sentì mancare l'aria. «Voi non siete esseri umani!» urlò nella sua lingua, nel dialetto di Stse. Ci fu un certo andirivieni nella stanza. Il brusio della folla in delirio cessò di colpo. Riuscì a controllare il respiro e giacque a occhi chiusi, ripetendo un verso del Canto della Permanenza ancora e poi ancora, finché il corpo cominciò a rilassarsi e a ritrovare un po' di equilibrio, non molto.
Gli portarono del cibo. Lo rimandò indietro.
La stanza era buia, rischiarata soltanto da un lumino da notte sulla parete in basso e dalle luci della città che filtravano dalla finestra. La vecchia, l'infermiera di notte, era lì che sferruzzava nella semioscurità.
«Mi dispiace,» disse Havzhiva a casaccio, non sapendo di preciso cosa avesse detto a quella gente.
«Oh, signor Nunzio!», disse la vecchia con un lungo sospiro. «Ho letto del suo popolo. Del popolo di Hain. Voi non vi torturate e non vi uccidete l'un l'altro. Voi vivete in pace. Vorrei sapere, vorrei proprio sapere cosa vi sembriamo. Streghe, forse, o diavoli.»
«No,» rispose lui, respingendo un'ondata di nausea.
«Quando starà meglio, quando sarà più in forze, signor Nunzio, c'è una cosa di cui vonei parlarle.» La sua voce era calma e dotata di un'autorità naturale che avrebbe potuto all'occorrenza diventare formale e temibile. Da sempre lui aveva incontrato persone che parlavano a quel modo.
«Posso ascoltare anche adesso,» disse, ma lei ripeté, «Non adesso. Un'altra volta. Ora è stanco. Vuole che canti per lei?»
«Sì,» rispose, e la vecchia, seduta col suo lavoro a maglia, intonò un canto muto e stonato, un sussurro. I nomi dei suoi dèi comparivano nel canto: Tual, Kamye. Non sono i miei dèi, pensò lui, ma chiuse gli occhi cullato dalla nenia rassicurante.
Si chiamava Yeron, e non era tanto anziana. Aveva quarantasette anni. Era passata attraverso trent'anni di guerra e numerose carestie. Aveva denti finti, cosa di cui Havzhiva non aveva mai sentito parlare, e portava occhiali con la montatura di metallo. La correzione dei difetti del corpo non era sconosciuta su Werel, ma a Yotebber la maggior parte della popolazione non poteva permettersela, almeno così disse la donna. Era molto magra, e i suoi capelli erano fini. Aveva un'andatura altera ma si muoveva con difficoltà a causa di una vecchia ferita al fianco sinistro. «Tutti, proprio tutti in questo mondo hanno un proiettile in corpo, o cicatrici deturpanti, o una gamba tranciata, o un morticino nel cuore. Adesso lei è uno di noi, signor Nunzio. Ha avuto il battesimo del fuoco.»
Si stava riprendendo bene. C'erano cinque o sei specialisti a trattare il suo caso. Il Capo della regione veniva a fargli visita solo di tanto in tanto, ma inviava ogni giorno qualche suo incaricato. Il Capo, scoprì Havzhiva, provava gratitudine nei suoi confronti. L'oltraggioso attacco a un rappresentante dell'Ekumene gli aveva fornito il pretesto e il forte consenso popolare per un attacco contro gli irriducibili isolazionisti del Partito Mondiale, capeggiato dal suo rivale, un altro signore della guerra, eroe della Liberazione. Il Capo inviava esaltanti bollettini delle sue vittorie al Vice-Nunzio nella sua stanza d'ospedale. Gli olonotiziari non mostravano che uomini in uniforme che correvano e sparavano, e apparecchi rombanti su alture deserte. Quando Havzhiva, un po' più in forze, cominciò a passeggiare per i corridoi, vide pazienti distesi nei letti dei vari reparti che, collegati alla rete neosensoriale, "vivevano le sensazioni" della battaglia nell'ottica, naturalmente, di quelli con le armi, di quelli con gli apparecchi da ripresa, di quelli, insomma, che sparavano.
Di notte gli schermi erano bui, la rete era spenta, e Yeron entrò per sederglisi accanto alla fioca luce della finestra.