«Le chiederò se puoi venire a cominciare il tuo tirocinio nella Casa.»
Mia madre disse "la Casa" con un tono tale da farmela apparire come un grande luogo sacro, come quello della nostra preghiera Entrerò nella casa luminosa, nel luogo della pace.
Ero così eccitata che cominciai a ballare e a cantare, «Io vado nella Casa, nella Casa!» Mia madre mi dette uno schiaffo per farmi smettere e mi sgridò per la mia esuberanza. Disse, «Sei troppo bambina! Non sai come ci si comporta! Se ti fai mandare via dalla Casa non ci potrai tornare mai più».
Le promisi che mi sarei comportata come una grande.
«Devi far tutto per bene,» mi ordinò Yowa. «Devi far tutto quel che ti dico quando te lo dico. Niente domande. Niente ritardi. Se la mia signora vede che sei un'irrequieta, ti rimanda subito qui. E sarà la tua fine per sempre.»
Le promisi che sarei stata calma e sottomessa. Promisi di ubbidire immediatamente a qualsiasi ordine e di non parlare. Più lei cercava di intimorirmi, più io desideravo vedere la meravigliosa Casa luminosa.
Quando mia madre se ne andò non pensavo che avrebbe davvero parlato con la "mia signora". Ero abituata alle promesse non mantenute. Invece qualche giorno dopo tornò, e la sentii parlare con la nonna. Dosse era indignata, all'inizio, e parlava con voce alterata. Mi acquattai sotto la finestra della capanna per ascoltare, e sentii mia nonna che piangeva. Ero piena di spavento e di stupore. La nonna mi trattava con indulgenza, era sempre sollecita verso di me e mi faceva mangiar bene. Non mi era mai passato per la mente che ci potesse essere qualcos'altro al di là di questo, finché non la sentii piangere. Il suo pianto fece piangere anche me, come se fossi stata una parte di lei.
«Lasciamela tenere un altro anno,» disse. «È ancora così piccola. Non la farò mai uscire dal cancello.» Stava supplicando come se fosse una che non contava niente, invece di una nonna. «La bambina è la mia unica gioia, Yowa!»
«E dunque non vuoi che vada a star bene?»
«Solo un altro anno ancora. È troppo irrequieta per la Casa.»
«È stata lasciata sin troppo senza freni. Se rimanesse qui la manderebbero nei campi. Un anno di quella vita e non la prenderebbero più nella Casa. Rimarrebbe polvere. In ogni caso è inutile piangerci sopra. Io l'ho già chiesto alla mia signora, e ormai la bimba deve andare. Non posso tornare senza di lei.»
«Yowa, fa' in modo che non le accada qualche disgrazia,» sussurrò Dosse sottovoce, come se provasse vergogna a dire una cosa del genere a sua figlia, e tuttavia con una certa forza nel tono.
«La porto con me per tenerla lontana dalle disgrazie,» disse mia madre. Poi mi chiamò, e io mi asciugai le lacrime e la raggiunsi.
È curioso, ma non ricordo la mia prima traversata del mondo fuori dal complesso, né la mia prima visione della Casa. Forse ero spaventata e tenevo gli occhi bassi, e tutto mi sembrava così strano da non capir niente di quel che vedevo. So che passò un certo numero di giorni prima che mia madre mi accompagnasse alla presenza della signora Tazeu. Mi dovette ripulire, istruire e assicurarsi che non le avrei fatto fare brutta figura. Ero terrorizzata quando alla fine mi prese per mano e, sussurrandomi raccomandazioni per tutto il tempo, mi condusse fuori dai quartieri delle donne, attraverso corridoi e porte di legno decorato, fino a una luminosa stanza soleggiata priva di soffitto, piena di fiori che crescevano in vasi.
Non avevo familiarità coi fiori, solo con le erbacce che crescevano negli orti, e così li guardavo e li guardavo. Mia madre dovette torcermi la mano per costringermi a guardare la donna distesa su un sedile in mezzo ai fiori, con abiti vaporosi e dai colori vivaci e floreali. Potevo a malapena distinguere le due cose, i suoi vestiti e i fiori. I suoi capelli erano lunghi e luminosi, la pelle lucente e nera. Mia madre mi sospinse avanti, e io eseguii quello che lei mi aveva fatto provare e riprovare tante volte. Mi avvicinai e mi inchinai presso la sedia e aspettai, e quando lei protese la lunga mano affusolata e morbida, nera sul dorso e azzurra sul palmo, vi chinai sopra la fronte. Avrei dovuto dire, «Sono la sua schiava Rakam, signora,» ma la voce non mi uscì.
«Che cosino grazioso,» disse, «così scura!» La sua voce cambiò di tono sulle ultime parole.
«I Boss vennero qui… quella notte,» disse Yowa con un sorriso un po' stentato, gli occhi bassi per l'imbarazzo.
«Non lo metto in dubbio,» disse la donna. Riuscii a sbirciarla di nuovo. Era bella. Non pensavo che potesse esistere una persona così bella. Credo che percepisse il mio stupore. Allungò di nuovo la mano morbida e affusolata e mi carezzò la guancia e il collo. «Molto, molto graziosa, Yowa,» disse. «Hai fatto bene a portarla qui. Le è stato fatto un bagno?»
Credo che non avrebbe fatto quella domanda se mi avesse visto al mio arrivo, lercia e puzzolente dello sterco di vacca con cui facevamo il fuoco. Non sapeva niente del complesso. Non conosceva niente al di là del beza, cioè del reparto delle donne della Casa. Era stata sempre tenuta lì, così come io ero stata tenuta nel complesso, senza conoscere niente dell'esterno. Non aveva mai sentito l'odore dello sterco di vacca, come io non avevo mai visto i fiori.
Mia madre le assicurò che ero pulita, e lei disse, «Allora può venire a letto con me stanotte. Sarebbe carino. Ti piacerebbe venire a dormire con me, piccola…?» Lanciò un'occhiata a mia madre, che mormorò, «Rakam». La signora increspò le labbra nel sentire quel nome. «Com'è brutto! Toti. Sì, tu sarai la mia nuova Toti. Portala qui stasera, Yowa.»
Aveva avuto un volpino di nome Toti, mi spiegò mia madre. La bestiola era morta. Non sapevo che gli animali avessero un nome, così non mi sembrò affatto strano vedermi attribuito il nome di un animale. Da principio mi sembrò invece strano non essere più Rakam. Non riuscivo a pensare a me stessa come Toti.
Quella sera mia madre mi fece di nuovo il bagno, unse la mia pelle con olii profumati e mi vestì con una camicia soffice, ancora più soffice del suo foulard rosso. Di nuovo mi sgridò e mi ammonì, ma era eccitata anche lei, e soddisfatta di me, mentre tornavamo al beza attraverso altre sale, incontrando altre schiave sulla via, fino alla camera da letto della signora. Era una stanza splendida, piena di specchi, di cortine e di dipinti. Io non avevo ancora capito cos'erano gli specchi, né cos'erano i dipinti, e mi spaventai quando ci vidi dentro delle persone. La signora Tazeu notò che ero spaventata. «Vieni, piccolina,» mi disse facendomi posto nel grande letto pieno di cuscini, spazioso e soffice. «Vieni ad abbracciarmi.» Mi rannicchiai al suo fianco e lei mi carezzò i capelli e la pelle e mi tenne fra le sue calde braccia morbide finché non mi sentii comoda e a mio agio. «Qui, qui, piccola Toti,» diceva, e così ci addormentammo.
Diventai la favorita della signora Tazeu Wehoma Shomeke. Dormivo con lei quasi tutte le notti. Suo marito era di rado a casa e quando c'era non andava da lei, preferendo le schiave per il proprio piacere. Qualche volta lei chiamava mia madre, o schiave più giovani, nel suo letto, e in questi casi mi mandava via, finché non fui più grandicella, dieci o undici anni, e cominciò a farmi restare e unirmi a loro, insegnandomi a provare piacere. Era gentile, ma era pur sempre la padrona in amore, e io ero un giocattolo nelle sue mani.
Fui istruita anche nelle arti e nei lavori domestici. Mi insegnò a cantare insieme a lei, dato che avevo una bella voce. Durante quegli anni non subii mai una punizione e non fui mai costretta a fare lavori pesanti. Io, che ero stata così irrequieta nel complesso, nella Grande Casa ero perfettamente sottomessa. Ero stata ribelle a mia nonna e insofferente ai suoi ordini, ma eseguivo di buon grado qualsiasi ordine della mia signora. Mi teneva legata a sé col solo tipo di amore che aveva da darmi. Io ero convinta che fosse Tual la Misericordiosa discesa in terra. Non lo dico tanto per dire, è la verità. Credevo che fosse un essere di natura superiore, molto al di sopra di me.