Forse direte che non avrei potuto o dovuto provare piacere nell'essere usata senza il mio consenso dalla mia padrona, e che se l'ho provato non dovrei parlarne, mettendo così in evidenza un vantaggio minimo in una sì grande sciagura. Ma io non avevo idea di cosa significassero consenso o rifiuto: sono parole che appartengono alla libertà.
Aveva un unico figlio, un ragazzo di tre anni più grande di me. Viveva quasi da sola in mezzo a noi schiave. I Wehoma erano nobili delle Isole, gente molto all'antica fra cui non usava che le donne viaggiassero, e quindi era rimasta tagliata fuori dalla sua famiglia. L'unica compagnia che aveva erano gli ospiti che il possidente Shomeke portava con sé talvolta dalla capitale, ma erano tutti uomini, e poteva intrattenersi con loro solo a tavola.
Vedevo di rado il padrone, e solo da lontano. Anche di lui pensavo che fosse un essere superiore, ma pericoloso.
Quanto a Erod, il padroncino, lo vedevamo quando veniva quotidianamente in visita da sua madre o quando usciva a cavallo coi suoi precettori. Noi ragazzine di undici o dodici anni lo sbirciavamo e ridacchiavamo fra noi, perché era un gran bel ragazzo, nerissimo e dai lineamenti fini come la madre. Sapevo che aveva paura del genitore, perché l'avevo udito piangere mentre era con sua madre. Lei lo consolava con dolcetti e carezze, e gli diceva, «Presto partirà di nuovo, tesoro». Anche a me dispiaceva per Erod, che era come un'ombra, evanescente e innocuo. Fu mandato a scuola fuori per un anno, a quindici anni, ma suo padre lo riportò indietro prima della fine dei corsi. I servi raccontarono che il padrone lo aveva picchiato a sangue e gli aveva perfino proibito di uscire a cavallo della tenuta.
Le serve che venivano usate dal padrone ci raccontavano quanto fosse brutale, facendoci vedere i punti in cui gli aveva lasciato addosso i segni della sua violenza. Lo odiavano. Mia madre era la sola che non dicesse niente contro di lui. «Chi ti credi di essere?» disse a una ragazza che si stava lagnando del trattamento subito. «Una signora da maneggiare come vetro?» E quando la ragazza si ritrovò incinta, o pregna, come dicevamo noi, mia madre la fece rimandare al recinto. Non capii perché. Pensai che Yowa fosse crudele e gelosa. Adesso penso che volesse solo proteggere la ragazza dalla gelosia della nostra signora.
Non so quando fu che mi resi conto di essere figlia del padrone. Siccome mia madre era riuscita a tenerlo nascosto alla signora, pensava che fosse rimasto un segreto per tutti. Invece tutte le schiave lo sapevano. Non so bene che cosa mi dissero o che cosa sentii dire, ma quando vedevo Erod, lo studiavo e pensavo che ero io quella che assomigliava di più a nostro padre. Ormai avevo imparato che cosa voleva dire "padre", e mi stupivo che la signora Tazeu non notasse niente. Evidentemente aveva deciso di ignorare la faccenda.
In quegli anni mi recai raramente al complesso. Dopo essere rimasta mezzo anno o giù di lì alla Casa, non vedevo l'ora di tornare, di rivedere Walsu e la nonna, e di mostrare loro i miei bei vestiti, e la pelle pulita e i capelli lucenti, ma quando andai dai cuccioli che erano stati i miei compagni di gioco, loro mi bersagliarono di fango e sassi e mi strapparono gli abiti. Walsu era nei campi. Dovetti stare tutto il giorno nascosta nella capanna di mia nonna. Non volli tornare mai più. Quando la nonna mi mandava a chiamare, ci andavo solo accompagnata da mia madre e le restavo sempre accanto. La gente del recinto, mia nonna compresa, cominciò ad apparirmi rozza e disgustosa. Erano sporchi, ed emanavano cattivo odore. Avevano piaghe e cicatrici, segni di punizioni, dita, orecchie o nasi distorti. Le loro mani e i loro piedi erano rovinati, con unghie deformate. Non ero più abituata a vedere gente così. Noi domestici della Grande Casa eravamo completamente diversi, pensavo. Servire gli esseri superiori ci rendeva simili a loro.
All'età di tredici o quattordici anni la signora Tazeu mi teneva ancora nel suo letto, facendo spesso l'amore con me. Ma aveva anche una nuova favorita, la figlia di una delle cuoche, una ragazzetta graziosa anche se bianca come la creta. Una notte fece l'amore con me a lungo, facendomi carezze che sapeva mi avrebbero mandato nella più grande estasi. Quando giacqui esausta fra le sue braccia mi sussurrò, «Addio, addio!» baciandomi su tutto il viso e sui seni. Ero troppo confusa per farci caso.
La mattina dopo la mia signora mi chiamò insieme a mia madre per annunciarci che intendeva regalarmi a suo figlio per il suo diciassettesimo compleanno. «Mi mancherai terribilmente, Toti cara,» disse, con le lacrime agli occhi. «Sei stata la mia delizia. Ma non c'è nessun'altra ragazza qui che sia altrettanto adatta per Erod. Sei tu la più pulita, la più cara, la più dolce di tutte. So che sei vergine…» Intendeva dire rispetto agli uomini. «…e che il mio ragazzo proverà piacere con te. E sarà gentile con lei, Yowa,» aggiunse con tono rassicurante a mia madre. Mia madre s'inchinò e non disse niente. Non c'era niente da dire. E non disse niente neanche a me. Era troppo tardi per parlare del segreto di cui era andata così fiera.
La signora Tazeu mi dette un medicamento per prevenire la gravidanza ma mia madre, non fidandosi di quel ritrovato, andò da mia nonna e mi portò un anticoncezionale fatto con le erbe. Li presi fiduciosamente tutti e due, quella settimana.
Quando un uomo della Casa faceva visita a sua moglie si recava nel beza, ma se voleva una schiava era lei a essere "mandata di là". Così la sera del compleanno del padroncino fui vestita tutta di rosso e condotta, per la prima volta in vita mia, nel settore maschile della Casa.
La devozione per la mia signora si estendeva anche a suo figlio, e poi mi era stato insegnato che i possidenti erano naturalmente superiori a noi. Ma lui lo conoscevo fin da bambino, e sapevo che eravamo per metà dello stesso sangue. Questo mi faceva provare verso di lui una strana sensazione.
Pensavo che fosse timido, timoroso della sua virilità. Altre ragazze avevano cercato di sedurlo e non c'erano riuscite. Le donne mi avevano istruito su cosa fare, su come offrirmi a lui incoraggiandolo, e io ero pronta. Gli fui portata nella sua grande camera da letto, tutta di pietra traforata come trina, e con alte finestre strette di vetro violaceo. Rimasi per un po', timidamente, vicino alla porta, mentre lui sedeva a un tavolo coperto di carte e di schermi. Alla fine si avvicinò, mi prese per mano, e mi condusse a una sedia. Mi fece sedere, e mi parlò stando in piedi, il che era contro tutte le regole, lasciandomi alquanto perplessa.
«Rakam,» mi disse, «ti chiami così, vero?» Io annuii. «Rakam, mia madre è stata premurosa con me e non credere che io sia ingrato verso di lei o insensibile alla tua bellezza. Ma non voglio prendere una donna che non può offrirsi di sua volontà. Un rapporto sessuale fra padrone e schiavo è uno stupro.» Continuò a parlare, con belle parole, come la mia signora quando leggeva a voce alta da uno dei suoi libri. Io non capii molto, tranne il fatto che sarei dovuta tornare ogni volta che lui mi avesse chiamato e che avrei dovuto dormire nel suo letto, senza che lui mi toccasse. E non avrei dovuto rivelarlo a nessuno. «Mi dispiace, mi dispiace molto doverti chiedere di mentire,» disse, con tale onestà che mi chiesi se non fosse piuttosto lui a soffrire della menzogna. Mi sembrò più simile a un dio che a un essere umano. Se si soffre a mentire, come si fa a vivere?
«Farò come mi chiedi, mio signore Erod,» dissi.
Così, quasi tutte le notti, arrivavano i suoi schiavi per portarmi di là. Dormivo nel grande letto, mentre lui lavorava alle sue carte sul tavolo, poi passava la notte su un divano sotto la finestra. Spesso aveva voglia di parlare con me, a lungo, a volte, e mi spiegava le sue idee. Mentre era a scuola nella capitale era diventato membro di un gruppo di possidenti che intendevano abolire la schiavitù, chiamato "La Comunità". Avuto sentore di ciò, suo padre lo aveva ritirato dall'istituto e rispedito a casa, con l'ordine di non uscire dalla tenuta. Anche lui era dunque prigioniero. Ma era riuscito a mantenersi continuamente in contatto con altri membri della Comunità attraverso la rete, che sapeva come manovrare eludendo il controllo di suo padre, o delle autorità.